sabato 30 giugno 2012

L'internazionale periodico


Con piacere farò seguire da oggi alcuni interventi de "l'internazionale" periodico comunista del Circolo Operaio Comunista di Livorno che aderisce all'Unione Comunista Internazionalista.
Di seguito il documento politico della conferenza 2011, particolarmente interessante letto dopo più di un anno.


Non solo contro Berlusconi: la necessità di una politica operaia nella crisi del capitalismo

Questo testo è il documento politico adottato dalla nostra conferenza d’organizzazione di febbraio 2011.

La crisi non è alle spalle

Sulla scorta delle cifre fornite dai vari centri di analisi economica, fino a pochi giorni fa i giornali erano pieni di commenti a tinte rosa sull’andamento dell’economia mondiale. “Questa è la volta buona, questa volta siamo veramente fuori dalla crisi”, tale, più o meno, era il tenore dei giudizi degli esponenti delle banche, dei ministeri economici, delle associazioni imprenditoriali, per non parlare degli organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale o l’OCSE. In Italia si riconosceva la persistenza di maggiori “difficoltà” ma si confidava di agganciarsi a questo ingranaggio messosi di nuovo in movimento. Poi l’entusiasmo si è andato stemperando man mano che le rivolte dei popoli nordafricani si allargavano e il conflitto con l’ordine costituito si approfondiva.

Da fatto marginale della politica internazionale, su cui magari versare qualche lacrimuccia per le vite umane sacrificate, la ribellione popolare passava ad essere trattata come un evento cruciale non solo dello scacchiere politico ma anche degli interessi economici dei paesi più sviluppati, non fosse che per le risorse energetiche di quella regione, gas e petrolio, da cui dipende per buona parte l’approvvigionamento europeo. L’atteggiamento delle maggiori potenze, storiche sostenitrici di tutti i più spietati regimi dittatoriali della regione, si è adattato alle nuove circostanze. La diplomazia occidentale ha così “scoperto” che Mubarak, Ben Ali o Gheddafi, sono dei sanguinari dittatori, dimenticandosi quanto il suo sostegno sia stato determinante nel mantenerli al potere per tanti anni. L’Italia non è certo stata a guardare gli intrighi degli altri. Tutti ricordano le pagliacciate che accompagnarono la visita ufficiale di Gheddafi con il baciamano nei suoi confronti da parte di Berlusconi. La propensione del premier per le carnevalate è nota, così come la sua ammirazione per i dittatori, del resto pubblicamente esternata, spesso in loro presenza, ma la sostanza dei rapporti con quel regime si è basata per molto tempo sul peso che, negli anni e sotto tutti i governi, il capitalismo italiano aveva conquistato nel rapporto con il capitalismo libico fino a divenirne il principale partner economico. L’Eni ha svolto e svolge tuttora il ruolo di perno della politica estera italiana in Africa, Medio Oriente e paesi dell’ex Unione Sovietica. Lo stesso ruolo giocato a suo tempo nel mettere al potere Ben Ali in Tunisia nel novembre del 1987.

La crisi economica e i rialzi speculativi degli alimentari, come i cereali, hanno sicuramente pesato in modo determinante sull’esplosione delle rivolte nei paesi del Maghreb, e queste ribellioni, per il loro esito ancora incerto, sembrano accumulare nuovi fattori di crisi. In un accreditato organo del capitale finanziario come il Wall Street Journal, lo scorso 20 febbraio si poteva leggere: “Non sorprende la rabbia del popolo egiziano: il paese è uno dei più vulnerabili all’aumento dei prezzi alimentari. Il cibo costituisce oltre il 40% della spesa per consumi, uno dei più alti livelli tra i paesi emergenti. Lo stesso è vero per Tunisia, Algeria e Marocco”. Negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Giappone, per avere un termine di confronto, la spesa alimentare pesa rispettivamente per il 7,2%, per l’8,7% e per il 14,3%.

Presentati con asettico distacco dagli organi della finanza mondiale, i listini delle materie prime, fra cui, appunto, gli alimentari, segnalavano da tempo non solo l’occasione di straordinari profitti per gli speculatori ma anche l’allargarsi insostenibile della miseria più profonda per milioni di persone. L’economia non è fatta solo di numeri e di scommesse sul rialzo dei titoli: essa è fatta del lavoro umano e agisce in un contesto sociale, fatto di persone in carne e ossa. Il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, ha detto di recente che l’aumento delle quotazioni agricole “costringerà alla fame un miliardo di persone nel mondo”. Ripresa dell’economia mondiale è significato, fino ad oggi, soprattutto ripresa dell’economia finanziaria e quindi ripresa della speculazione, ovvero profitti che le banche e i grandi gruppi finanziari intendono continuare a fare anche a costo di affamare intere popolazioni. La crisi politica del Maghreb, stando così le cose, è solo l’inizio. Noi non possiamo che augurarci che la classe operaia nordafricana, per il momento ancora forza ausiliaria, accumuli, nelle lotte di questi giorni, sufficiente esperienza per divenirne una protagonista indipendente, con i propri obiettivi e con i propri organi politici.

Anche senza tenere di conto della crisi politica che sembra allargarsi a tutto il mondo arabo, una nuova pesante ipoteca sul futuro dell’economia mondiale è stata posta dallo sviluppo del debito pubblico delle maggiori potenze economiche. La paura di veri e propri fallimenti degli stati, ha spinto i governi europei a dar vita ad una specie di fondo di sostegno che dovrebbe fungere da prestatore di ultima istanza, fornendo una garanzia per le banche centrali e per il sistema finanziario dei singoli paesi. Non c’è, come si può intuire, nessuna motivazione solidaristica dietro a questa decisione, c’è piuttosto la paura che il fallimento di uno stato, che già è stato sfiorato in Grecia, trascini con se l’intera catena delle connessioni finanziarie il cui controllo è nelle mani delle grandi potenze. Ma non è detto che la cura sia migliore del male e che la sensazione di poter lucrare in tutta sicurezza sui titoli del debito pubblico non spinga i grandi speculatori, dietro ai quali ci sono semplicemente le grandi banche, a far maturare un’altra bolla finanziaria e un’altra drammatica crisi del sistema creditizio. Intanto, di comune accordo, tutti i governi preparano una nuova “cura da cavallo” che comporterà ulteriori sforbiciate sui servizi pubblici e sui sistemi pensionistici.

L’Italia meglio degli altri?

In Italia, in ogni caso, anche prima che i paesi del Nord Africa esplodessero e che si affacciasse lo spettro del “debito sovrano”, la maggior parte della popolazione non aveva nessun motivo di ritenersi “fuori dalla crisi”.

La disoccupazione è al vertice delle paure. E si può capire, nonostante i portavoce del governo Berlusconi ripetano in ogni occasione che grazie a loro l’Italia è stata meno colpita dagli effetti sociali della crisi rispetto ad altri paesi. A ottobre 2010 il rapporto dell’ISTAT stimava all’8,7% il tasso di disoccupazione nazionale. La cifra totale delle persone senza lavoro raggiunge e supera i due milioni, la metà dei quali cercano lavoro da più di un anno. Si tratta del dato più alto dal gennaio 2004. Nonostante il Ministro del Lavoro Sacconi continui a negare l’evidenza, i dati della disoccupazione giovanile sono ancora più allarmanti. La percentuale dei senza lavoro tra i giovani oscilla tra un quarto e quasi un terzo. I giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano sono, secondo l’ISTAT , più di due milioni.

Il dato reale della disoccupazione è quindi verosimilmente diverso e più alto del dato ufficiale. A ingrossare le fila dei disoccupati hanno contribuito i precari espulsi dall’insegnamento all’inizio dell’anno scolastico e, dall’inizio di quest’anno, anche quelli del pubblico impiego a cui non verrà rinnovato il contratto. Infatti, oltre a bloccare fino al 2013 il rinnovo dei contratti e le retribuzioni dei dipendenti pubblici, la manovra finanziaria del governo Berlusconi prevede “di avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni nei limiti del 50% della spesa sostenuta per le stesse finalità nel 2009”. Il che significa, secondo i calcoli della Cgil, 75-80.000 precari a casa nel 2011, molti dei quali erano al lavoro da anni.

Il quadro della disoccupazione non è completo se non si considerano anche i lavoratori in cassa integrazione. Si parla di 650.000 operai e impiegati, molti dei quali di fabbriche per cui la ripresa potrebbe non arrivare mai. Sono molte le aziende che non riaprono dopo le 52 settimane di cassa integrazione ordinaria. Malgrado la proroga a tutto il 2011 della cassa in deroga, in un tempo relativamente breve saranno sempre di più i lavoratori disoccupati senza coperture.

L’incertezza del futuro e il crollo dei redditi per cassa integrazione e disoccupazione contraggono brutalmente il tenore di vita delle famiglie dei lavoratori. Secondo una ricerca pubblicata dall’ISTAT, più del 30% delle famiglie vive oramai in uno stato di emergenza continua: il 16,5% sono indebitate per motivi diversi dal mutuo per la casa (erano 14,8% l’anno prima), il 12,4% (l’anno precedente erano il 10,5%) di queste non riesce a far fronte alle rate del debito. Crescono anche le famiglie che nel corso dell’anno, almeno una volta, non hanno avuto i soldi per acquistare cibo, passando dal 4,4 al 5,3%. Cresce la povertà, in poche parole, e cresce anche quando, qua e là, gli analisti economici trovano gli indicatori di una ripresa già in corso. Nel corso dell’ultimo anno, ad ogni modo, l’argomento “crisi” è servito per inasprire le condizioni generali della classe lavoratrice. In pochi mesi abbiamo assistito ad una serie di attacchi precisi e molto pesanti. Abbiamo avuto l’ennesima e sicuramente non ultima riforma delle pensioni, che posticipa il diritto ad andare in pensione di un anno per chi ne aveva già maturato i requisiti, per le donne del Pubblico Impiego che non abbiano raggiunto i quaranta anni di contributi il diritto alla pensione scatta a 65 anni e non più a 60. Il cosiddetto “collegato lavoro”, poi, ha modificato il quadro normativo del contenzioso tra lavoratore e impresa, indebolendo la posizione dei lavoratori anche di fronte a gravi abusi dei datori di lavoro e consegnando di fatto il giudizio all’arbitrato privato. Per quanto riguarda la contrattazione collettiva, inoltre,per tutto il Pubblico Impiego i contratti sono bloccati fino al 2013 mentre la Federmeccanica ha disdetto unilateralmente il contratto dei metalmeccanici siglato nel 2008. Nel settore specifico dell’automobile sono arrivati gli attacchi più duri, quelli orchestrati da Marchionne contro gli operai, prima a Pomigliano d’Arco e poi a Mirafiori.

Come dovrebbero difendersi i lavoratori?

Se i lavoratori fanno proprio il punto di partenza di tutti i ragionamenti padronali, è inevitabile che le conclusioni che tirano non li portino troppo distanti da questi. La borghesia assegna ai lavoratori il ruolo di truppa, sempre disponibile a farsi macellare, magari con entusiasmo patriottico, nella lotta tra vari gruppi capitalistici per mantenere e aumentare i propri profitti. L’economia è “loro”, il mondo è “loro”. Quando dicono che bisogna impegnarsi a far risalire la china all’Italia intendono che bisogna che i lavoratori si sacrifichino per mantenere a loro lo stesso livello di privilegi, anche in periodo di crisi. L’operaio e l’impiegato, il tecnico e l’addetto alle pulizie, fanno tutti parte di un esercito di subordinati la cui sopravvivenza è affidata alla loro utilità nella grande macchina del profitto capitalistico. “Che cos’è il proletariato?”- si domandava Engels in un testo di metà ‘800- “il proletariato è quella classe della società, che trae il suo sostentamento soltanto e unicamente dalla vendita del proprio lavoro e non dal profitto di un capitale qualsiasi; benessere e guai, vita e morte, l’esistenza intera della quale dipende dalla domanda di lavoro, cioè dall’alternarsi dei periodi d’affari buoni e cattivi, dalle oscillazioni d’una concorrenza sfrenata. Il proletariato o classe dei proletari è in una parola la classe lavoratrice del secolo decimo nono”. Non è questa, nel ventunesimo secolo, la condizione precaria, senza certezze, senza stabilità, che i politici e gli economisti al servizio del gran capitale ci presentano come moderna?

Come si sfugge a questa morsa? Con la lotta, certo. Ma la crisi, e perfino la “ripresa”, vera o presunta che sia, hanno talmente aumentato, come si è visto, il numero di quanti hanno perso il lavoro e di quanti non possono sperare di averne uno decente, oltre ad aggravare le condizioni salariali e normative di chi ancora ha un posto, che la lotta, per avere speranza di successo, non può che essere generale, di tutti i lavoratori. E’ inevitabile quindi che divenga una lotta politica, perché se non si tratta più di una vertenza di fabbrica o di categoria ma del tentativo di affermare gli interessi di un’intera classe sociale, il che, in pratica, significa conquistare una fetta più larga della torta della ricchezza nazionale a discapito dei profitti e delle rendite questo tentativo si scontra contro la resistenza delle classi privilegiate, in primo luogo della grande borghesia, delle banche, dei vari gruppi finanziari e industriali. Tutta questa gente dispone non solo del potere politico, ma anche di un poderoso e capillare apparato di propaganda. È chiaro, allora, che serve un significativo mutamento dei rapporti di forza nella società a favore della classe lavoratrice.

Lo sviluppo logico delle necessità di una difesa efficace delle condizioni dei lavoratori nel loro insieme ci porta quindi alla necessità di una politica operaia e di una forza organizzata capace di sostenerla.

Quale politica ci serve?

Sappiamo benissimo che se una cosa è logica e giusta non è affatto garantito che si realizzi da sé. I condizionamenti che frenano o addirittura paralizzano l’insieme dei lavoratori, che impediscono loro di agire come un tutto unico per difendere gli interessi che li accomunano sono molti. Alcuni sono oggettivi e sono, come abbiamo visto, riconducibili alla paura della disoccupazione, altri sono politici o ideologici. La classe dei lavoratori salariati potrà difendere i propri interessi d’insieme solo se saprà sviluppare una propria azione politica. Normalmente, invece, tutta la scena delle lotte politiche è occupata dai partiti della borghesia. I lavoratori sono chiamati a sostenere questo o quel partito, questo o quel candidato, nessuno dei quali osa mettere in discussione il dominio del capitale sull’economia e sulla società. Se prendiamo in esame gli appelli o le dichiarazioni pubbliche degli esponenti del centrosinistra, vediamo chiaramente che a Berlusconi e al suo governo si imputa, in fin dei conti, di non essere in grado di corrispondere, con la necessaria efficienza alle esigenze del capitalismo italiano. Nel linguaggio edulcorato della politica ufficiale si parla di “economia”, senza aggettivi, ma la realtà è quella di una economia capitalista che si contrappone agli interessi dei lavoratori e, in ultima istanza, a quelli di tutta la società. È ben vero che il tasso di prepotenza, di illegalità, di corruzione e di menzogne raggiunti dalla politica del centrodestra, conditi con le smargiassate e le provocazioni del piccolo Bonaparte di Arcore, si sono guadagnati il disprezzo di un numero sempre maggiore di cittadini, ma il nodo politico per la classe lavoratrice non è la sostituzione di una coalizione di governo con un’altra ugualmente, o forse ancora di più, legata al grande capitale. Il vero problema di oggi è l’affermazione di un rapporto di forze favorevole nell’ambito dei rapporti economici, nell’ambito della produzione e della distribuzione della ricchezza sociale.

Per agire come un soggetto politico indipendente la classe lavoratrice deve opporre un proprio programma a quello delle classi dirigenti. Questo programma non è una serie di punti o di rivendicazioni inventati a tavolino ma è qualcosa che scaturisce dalla stessa situazione economica, dalla stessa realtà della crisi e dalle sue conseguenze sui lavoratori. Come militanti comunisti rivoluzionari ci sforziamo di scorgere nei caratteri della crisi, nei colpi che assesta alle condizioni della classe lavoratrice, le misure necessarie alla difesa complessiva del mondo del lavoro. Naturalmente questo sforzo di comprensione e di elaborazione può produrre degli errori, ma quello che difendiamo prima di tutto è un metodo: proporre e difendere un punto di vista generale che corrisponda agli interessi generali della classe lavoratrice. Sulla crisi e, in genere, sull’evoluzione dei rapporti economici, non deve esistere solo la scelta tra i vari esponenti degli interessi del capitale, di destra o di sinistra, liberisti, semi-liberisti o dirigisti, ma deve esistere il punto di vista della classe che manda avanti con il proprio lavoro l’intera macchina dell’economia capitalista.

La forza delle necessità imposte dalla crisi, per quanto riguarda la condizione dei lavoratori, è tale che anche tra i sindacati, tra alcuni dirigenti politici o tra alcuni intellettuali ci si avvicina alla loro formulazione. Naturalmente, non ci si spinge mai fino in fondo, non si porta fino alle sue logiche conseguenze il singolo provvedimento auspicato perché questo spingerebbe troppo in là il movimento operaio, pericolosamente vicino ai limiti dei rapporti capitalistici di proprietà. Prendiamo l’esempio della rivendicazione di un salario minimo garantito. È un provvedimento imposto dal numero sempre più grande di rapporti di lavoro “atipici”, in cui non esiste praticamente alcun riferimento ai parametri del contratto nazionale di categoria e in cui la retribuzione è affidata all’arbitrio dei datori di lavoro. Già nel 2004, si era sviluppato un certo dibattito tra economisti vicini al centrosinistra, molti dei quali, “con prudenza”, si dicevano favorevoli a un salario minimo legale. Nel mondo sindacale bisognerebbe ricordare la campagna della Confederazione Generale del Lavoro francese per 1500 euro minimi mensili per tutte le categorie, mentre più di recente, con un linguaggio che il moderatismo imperante nella politica e nel giornalismo italiani definirebbe da “sinistra radicale”, l’Unione Sindacale Svizzera ha lanciato la propria campagna per il minimo salariale per legge. Uno degli slogan utilizzati è: “Voglio vivere col mio salario!”. Ecco alcune delle argomentazioni del sindacato svizzero: “Mentre i baroni della finanza si riempiono le tasche a dismisura con bonus milionari, c’è chi ogni giorno è costretto a stringere la cinghia, fino a soffocare. In silenzio.

Questa non è affatto giustizia sociale. Il salario minimo è pertanto uno strumento importante per lottare contro la precarietà e arginare i rischi di scivolare verso la nuova povertà”.

Un altro esempio di, parole d’ordine diffuse “con prudenza”, di provvedimenti di cui si chiede la realizzazione in tono sommesso, di rivendicazioni timidamente avanzate, ma che sono ancorati a delle necessità reali, è la richiesta, da parte della Cgil, di una tassa sui grandi patrimoni. Inutile dire che una maggiore decisione e una maggiore convinzione nell’avanzare questa rivendicazione garantirebbe alla Cgil un appoggio di massa. È anche chiaro che, data l’enorme proporzione di ricchezza sommersa in Italia, il problema di individuare i patrimoni soggetti a imposizione condurrebbe alla necessità di indagare sul tenore di vita, sulle spese di lusso, sulla quantità di beni mobili e immobili di cui i vari ricconi hanno la disponibilità, indipendentemente da tutti i trucchi usati per frodare il fisco. Ma qui ci si avvicina, come si è detto, ai limiti “sacri” del capitalismo e della proprietà privata. E certo, nessun professore, nessun dirigente politico e nemmeno nessun burocrate sindacale oserà mai varcare quei limiti.

Ma i lavoratori non hanno di queste preoccupazioni. Essi non hanno il minimo interesse a rispettare i limiti, che siano dettati dalle leggi vigenti o dalla consuetudine, che le classi capitalistiche hanno alzato attorno ai propri privilegi. Le prime rivendicazioni che la situazione economica impone nell’immediato, siano o meno armonizzabili nell’attuale quadro di leggi ordinarie e costituzionali, nascono dalla necessità di sfuggire alla miseria e dall’affermazione del diritto ad un’esistenza dignitosa:

- Salario minimo legale. Valido per tutte le categorie e collegato all’andamento reale del costo della vita.

- Indennità di disoccupazione unica. Proporzionata almeno al salario minimo legale e corrisposta a chi ha subìto il licenziamento, indipendentemente dalla durata del periodo di lavoro precedente, dalla categoria di provenienza, dalla tipologia di rapporto di lavoro. L’indennità dovrà essere corrisposta fintanto che il lavoratore non trovi un’altra occupazione. Estensione dell’indennità a tutti i giovani in cerca di prima occupazione.

- Proibizione dei licenziamenti.

- Distribuzione del lavoro a parità di salario. L’introduzione dell’informatica ha permesso l’accumulo e la concentrazione di una grande quantità di dati, nelle varie istituzioni preposte a monitorare l’economia, nelle stesse aziende, almeno in quelle di grandi dimensioni, nelle organizzazioni imprenditoriali. Esistono le premesse tecniche per rendere sufficientemente semplice la distribuzione delle ore di lavoro fra tutti i lavoratori impiegati in una stessa azienda o in uno stesso ramo produttivo, secondo i carichi di lavoro esistenti. Non deve più accadere che mentre da una parte si fanno straordinari fino al limite della sopportazione, dall’altra si mettono gli operai in cassa integrazione. Si dovranno eleggere delle commissioni composte da operai, impiegati e tecnici per realizzare praticamente questa rivendicazione.

- Forte imposta progressiva su profitti e rendite. Tanto più necessaria nel momento in cui l’adozione di tutti questi provvedimenti, che sono d’altra parte dettati da necessità minime di sopravvivenza, hanno un costo che deve essere posto in carico soprattutto alle classi più ricche.

Tutti questi obiettivi indicano la direzione di marcia di una mobilitazione generale e continuativa della classe lavoratrice, partendo dalle condizioni oggettive in cui la crisi la ha costretta. Nella misura in cui siamo mille miglia lontani, nella coscienza dei lavoratori, dall’intraprendere questa direzione, essi rappresentano uno strumento di propaganda. Ma non si tratta di una propaganda astratta. Non si tratta di offrire ai lavoratori soltanto analisi, spiegazioni e commenti sul disastro economico che li sta colpendo, si tratta di dire: “La via d’uscita c’è. Essa richiede coraggio e impegno, ma non ci sono alternative”. I rivoluzionari non possono rispondere alle domande che la crisi mette in bocca ai lavoratori semplicemente con formule sindacali più radicali, da una parte, o con la descrizione di un socialismo bello e fatto che non si sa da quale gradino dell’evoluzione sociale dovrebbe prendere le mosse. Abbiamo bisogno, attraverso la propaganda, di legarci a giovani, a lavoratori che accettino la sfida di un impegno che non darà risultati immediati, certo, ma che ha un rapporto logico, diretto con la situazione oggettiva, così come ognuno la sperimenta sulla propria pelle, e che si muove nella linea di ciò che dovrebbe essere fatto.

I punti che abbiamo elencato, d’altronde, non sono che una parte di un programma più ampio che, nel suo insieme, dovrebbe servire da riferimento tanto per le rivendicazioni immediate quanto per la soluzione definitiva alle contraddizioni drammatiche in cui il capitalismo trascina da almeno un secolo e mezzo la società. Non neghiamo che questo programma è in gran parte quello del Manifesto dei comunisti di Marx e quello di transizione di Trotskij, per limitarci al più vecchio e al più recente, in ordine di tempo, degli elaborati in cui il movimento comunista rivoluzionario si è misurato con la necessità di offrire ai lavoratori una sintesi politica capace di offrire risposte nello stesso tempo comprensibili e ancorate al movimento reale della storia.

Ma se riscopriamo nelle parole d’ordine di settanta, cento o centosessanta anni fa la forza di idee ben vive e vitali, ciò è dovuto soltanto alla sostanziale somiglianza tra il capitalismo di oggi e quello dei primordi, ovvero alla sua incapacità di svilupparsi senza incorrere in crisi catastrofiche e senza produrre una miseria di massa su scala sempre più ampia.

Di quale partito abbiamo bisogno

Nelle condizioni concrete in cui si svolge in Italia la lotta per la costruzione di un partito operaio su basi rivoluzionarie, la difesa e la propaganda di un programma operaio, chiaro e comprensibile, ha anche il significato di cercare e di preparare un terreno comune, di facilitare nuovi legami e collaborazioni nel ristretto e disgregato ambiente dei militanti marxisti. Si ripete continuamente, nei volantini e nei periodici dei gruppi rivoluzionari, che bisogna unificare le lotte, che non si può vincere isolandosi fabbrica per fabbrica, ecc. lo scriviamo anche noi. Ma questo che significa? Significa indicare la necessità di una lotta politica della classe. E, più praticamente, significa tentare di stabilire dei legami permanenti con quei lavoratori che condividono la necessità di una tale politica nel momento in cui ancora non esiste. Unire le lotte per noi non è solo uno slogan sindacale, ma il punto di partenza per una evoluzione politica dei lavoratori più coscienti e combattivi.

In un suo noto libro, scritto agli inizi del ‘900, proprio a proposito delle caratteristiche di un partito operaio marxista che nella Russia di allora era ancora da costruire, Lenin affermava: “Bisogna sognare!”. Cioè bisogna avere un’idea di quello che dovrà essere in concreto lo strumento di una politica operaia. Bisogna che si propagandi non solo l’idea della necessità di un partito operaio oggi in Italia, ma anche che se ne definiscano sia pure approssimativamente quelle caratteristiche che scaturiscono da tutta l’esperienza trascorsa del movimento operaio e socialista. Il partito operaio, inteso come organo riconosciuto dalla maggior parte dei lavoratori quale propria emanazione, non potrà vedere la luce, sicuramente, senza una ripresa in grande stile delle lotte di classe e della combattività degli stessi lavoratori. Quando e come questo potrà accadere non lo sappiamo. Chiamiamo, non a caso, “spontaneità” il movimento di lotte e di scioperi che periodicamente, e a volte a distanza di decenni tra un movimento e l’altro, agita tutti i paesi del mondo. Lo definiamo con questo termine per sottolineare che si tratta di fenomeni che nessuna volontà politica è in grado di scatenare a piacimento. Quello che tutta la storia del movimento operaio ci mostra, tuttavia, è che i più importanti partiti marxisti del passato furono costruiti anche grazie ad una minoranza di militanti che aveva capito la necessità di un ruolo e di un’azione politica indipendente della classe lavoratrice prima ancora che le circostanze sociali concrete consentissero a questo “sogno” di diventare realtà.

Di quale tipo di partito ha bisogno la classe lavoratrice? Di un partito che abbia una solida base di principi e di rivendicazioni politiche e sociali condivisi da tutti i suoi militanti. Un partito che rivendichi con orgoglio l’appartenenza al comunismo internazionalista e rivoluzionario, i cui esponenti non hanno aspettato il collasso dell’Urss per denunciare la degenerazione del regime sovietico, ma hanno mantenuta viva, in condizioni difficilissime la continuità con l’autentico spirito rivoluzionario del marxismo contro Stalin e contro un movimento “comunista” internazionale che, già alla fine degli anni ’20, era divenuto l’organo controrivoluzionario della burocrazia sovietica. Di un partito in cui si pratichi concretamente la democrazia operaia, secondo il criterio, mai insuperato fino ad oggi, del centralismo democratico. Di un partito che non confonde l’essere rivoluzionario con l’essere estremista, che non prende i suoi desideri per realtà e che cerca sempre di comprendere quello che gli accade intorno. Un partito che si pone il problema di parlare a tutti i lavoratori e non solo a quelli più politicizzati e che quindi non parla un linguaggio da iniziati o un gergo da club esclusivo.

Detto questo, si pone naturalmente, il problema di che cosa fare per andare in questa direzione. Indubbiamente, ogni piccolo gruppo di marxisti rivoluzionari ha il diritto e il dovere di continuare a portare avanti il proprio intervento là dove ha mosso i primi passi e ha messo qualche radice. Tuttavia è sempre più chiaro che il peggioramento drammatico e generalizzato delle condizioni non solo dei lavoratori ma di gran parte delle classi popolari (disoccupati, partite Iva, piccoli artigiani, ecc.) condiziona l’azione politica di ogni gruppo o circolo di militanti marxisti, per quanto la loro attività sia limitata prevalentemente alla propaganda e al proselitismo. In un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, i lavoratori con i quali entriamo in contatto ci domandano: “Questi sono gli effetti della crisi del capitalismo, come dite voi, bene: abbiamo visto che difenderci fabbrica per fabbrica non ci porta da nessuna parte, come dite voi, ma allora che cosa si dovrebbe fare? Per che cosa bisognerebbe battersi, come si deve rispondere alla crisi, alla disoccupazione, ai salari da fame, alla precarietà?”. È la richiesta, anche se spesso inconsapevole, di una politica operaia. Ed è un terreno sul quale bisognerà bene che i militanti rivoluzionari si confrontino e che trovino la via di una collaborazione sempre più stretta.

I socialisti di inizio secolo XX si conquistarono la fiducia delle masse proponendosi come rappresentanza politica dei lavoratori. Che cosa volevano i socialisti divenne sufficientemente chiaro a un numero crescente di operai, di contadini, di studenti. I socialisti erano per il suffragio universale, per le otto ore, per la perequazione salariale tra uomini e donne, per l’imposta progressiva, per l’istruzione gratuita e obbligatoria, per la progressiva socializzazione dei mezzi di produzione … . Tutte cose che rappresentavano una risposta precisa alle principali questioni che lo sviluppo del capitalismo poneva alle masse proletarie e semiproletarie, sia sul terreno economico-sociale che su quello politico. Possiamo naturalmente trovare tutte le differenze che vogliamo fra la situazione di oggi e quella di allora, sarebbe perfino puerile enumerarle. Rimane il fatto che un programma e una politica, che ne sia l’articolazione concreta in un periodo determinato, erano e rimangono un grande punto di forza per il domani ma anche per l’oggi. In un impegno serio a definire, discutere, sperimentare, i lineamenti di un programma e di una politica della classe lavoratrice, le forze che si richiamano alla tradizione rivoluzionaria del movimento operaio possono avviare una maturazione che le porti lontano dal pericolo di un isolamento settario e favorisca quelle intese fra raggruppamenti diversi, quell’abitudine al lavoro comune, che attraverso l’annodarsi di relazioni di fiducia reciproca, porti un domani non troppo lontano ad una vera e propria fusione delle correnti rivoluzionarie. Sarebbe ancora poca cosa di fronte alla grandiosità del compito di costruire un vero partito operaio, ma sarebbe comunque il primo significativo passo in quella direzione.

Brutalità poliziesca


In seguito al recente caso ignominioso degli infami delle forze dell'ordine non riesco a far altro che rispondere in un modo.

Tutta la mia solidarietà alla mamma di Federico Aldrovandi

Invito i lettori alla lettura di

http://ita.anarchopedia.org/Violenza_della_polizia

Brutalità poliziesca


Seppur l'uso della forza da parte delle forze di polizia e dell'esercito venga strettamente regolamentato dalle leggi, esistono prove in cui gli stessi hanno pesantemente abusato dei loro poteri: si va dai "semplici" pestaggi alla violenza durante manifestazioni ed eventi sportivi, sino a veri e propri casi di omicidi; tutti questi abusi, talvolta sono stati compiuti da singole individualità (quelle che ipocritamente i media chiamano "mele marce"), talvolta invece si è trattato di vere e proprie operazioni illegali che hanno goduto dell'appoggio esterno di alti funzionari dello Stato e della classe politica. In tutti i casi essi sono il risultato di un'educazione e di un addestramento che tende a disumanizzare e a considerare pericolosi per l'ordine sociale gli antagonista, i ribelli, gli emarginati, i carcerati, ecc.

Episodi recenti

Recentemente sono saliti alla ribalta della cronaca diversi casi di omicidio compiuti dalle forze di polizia

Marcello Lonzi, ucciso nel carcere di Livorno l'11 luglio 2003;
Federico Aldrovandi, assassinato il 25 settembre 2005;
Riccardo Rasman, morto a a Trieste il 27 ottobre 2006;
Aldo Bianzino, trovato morto nel carcere di Perugia il 14 ottobre 2007
Gabriele Sandri, ucciso da un “colpo accidentale” l'11 novembre 2007;
Giuseppe Uva, violentato e ucciso in caserma il 14 giugno del 2008
Stefano Cucchi, ucciso durante custodia cautelare il 22 ottobre 2009;

http://federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/

Firma l'appello

Venerdì 29 Giugno 2012 18:29

venerdì 29 giugno 2012

Guerra globale


"Forse, senza saperlo, stiamo combattendo la prima guerra globale del Duemila. Una guerra che non usa più armi, che non bombarda né fa esplodere atomiche, che non provoca morti, ma produce fame, disoccupazione, scontro sociale, impoverimento. Insomma, riduce sul lastrico i perdenti. Le direttive che pervengono dall'UE o dalla Bce assomigliano ai piani strategici di uno Stato Maggiore: far resistere la Grecia ad ogni costo, apprestare immediate difese per le prime linee direttamente sotto attacco che si chiamano Italia e Spagna. E i quotidiani listini delle Borse europee ed extraeuropee e li si attendono con la stessa ansia, con la stessa trepidazione dei Bollettini di guerra di una volta."

Andrea Camilleri
Chi non ha vissuto sufficientemente a lungo per tornare indietro con la memoria alla cronaca degli ultimi 30/40 anni, è probabile che non si accorga di quanto, negli ultimi anni, la parola guerra sia presente negli argomenti dei mas-media, nelle pagine dei giornali o semplicemente nei discorsi quotidiani.
L’osservazione non è priva di un significato preciso: è evidente che qualcosa è ormai cambiato nelle coordinate geopolitiche. Se rappresentassimo sugli assi di un piano cartesiano il potere economico e militare dei paesi mondiali da una parte e l'arco di tempo che va dagli anni '40 ad oggi dall’altra, potremmo definire una mappa dinamica degli equilibri mondiali nazionali e verificare le differenze rispetto all’immediato dopoguerra. Terminato il conflitto della cosiddetta seconda guerra mondiale è iniziata la "guerra globale"

Per cogliere alcuni aspetti del mutamento occorre ritornare per un’ennesima volta, dopo anni di dibattiti, alla scomparsa dell’U.R.S.S. e del blocco sovietico. Con la scomparsa del “nemico numero uno” attribuire a forze ben definite e facilmente identificabili una presunta minaccia all’ordine mondiale, alla stabilità politica e sociale occidentale e alle cosiddette “democrazie compiute” era diventato molto difficile. Era necessario “ricostruire” un nemico che rappresentasse una minaccia e fosse il capro espiatorio che giustificasse la crisi del sistema generale, la perdita degli equilibri interstatali (la pax americana) da qualche parte occorreva trovarlo. Detto. Fatto! Il nuovo nemico si cominciò a chiamare terrorismo internazionale. Niente di meglio: il nuovo nemico non è un ente ben definito, non ha confini, può cambiare e nascondersi, a seconda delle circostanze, ovunque, e non è riconoscibile in modo palese! E’ il nemico globale per eccellenza. Esso può essere individuato e stanato solo ed unicamente dalle complesse reti spionistiche o controspionistiche, che operano, ovviamente, in segreto.

Il cittadino comune non è dunque in grado di giudicare più o meno oggettivamente e (questo è importante) di volta in volta la gravità della minaccia. Il fatto che da circa un decennio la minaccia si ritenga provenire dal terrorismo islamico è del tutto marginale. Domani sarà possibile individuarla in qualche altra “essenza”, sigla o entità a seconda di dove saranno gli interessi, quasi sempre economici, da salvaguardare. Gli interessi da salvaguardare ancora oggi, nonostante la crisi colpisca pesantemente l’economia statunitense sono quelli made in U.S.A., i quali, nonostante l’indebolimento economico-strategico sul piano mondiale, si presentano sul piano militare come gli unici garanti (o gli unici possibili garanti) della protezione ai paesi subalterni occidentali. Questo non è meno vero nonostante si sia assistito prima del 2009 al tentativo di Francia e Germania, per quanto riguarda l’Europa, di contrapporsi sul piano politico-strategico alla superpotenza in questione. La catastrofe finanziaria mondiale ha per ora oscurato alcune strategie, ma non per forze si deve pensare che la Germania abbia abbandonato strategie politiche ed economiche volte a tale fine. Il ruolo di “comando” palesato dalla cancelliera tedesca è abbastanza indicativo.

Per quel che riguarda la questione orientale la storia si complica un po’. Non c’è dubbio che con la Guerra del Golfo anche il Giappone avesse acquistato, abbastanza a buon mercato, la protezione americana con qualche milione di dollari, ma non è altrettanto vero che a distanza di oltre dieci anni il Giappone e tante trasformazioni (spostamenti ad es. di equilibri economici e finanziari) abbia il disperato bisogno di conservare la propria presenza economica nelle zone che allora apparivano più importanti. Lo sono invece ancor di più oggi per gli U.S.A., dopo che il potere finanziario nipponico ha conquistato maggiori fette di mercato in oriente allargando la propria influenza commerciale. Ma andiamo con ordine e torniamo al Terrorismo.

Il pensiero non può portarci che al fatidico 11 settembre.
In un certo senso parte dello scompiglio del mondo islamico nasce dalla contrapposizione degli interessi geopolitici dei due blocchi (U.S.A.- U.R.S.S.). Da una parte la strumentalizzazione dello schieramento sunnita dall'altra di quello sciita, perché quest'ultimo doveva rappresentare il “soggetto rivoluzionario” che lottava contro gli interessi della borghesia sunnita. Sembra strano il destino dei taliban: avevano rappresentato gli interessi dell'imperialismo americano ora  paiono potenti terroristi da sterminare. Questa stranezza appare tale solo agli occhi di chi crede l’<> della guerra al terrorismo davvero uno scontro tra Civiltà, naturalmente.
Ma le cose non stanno in questo modo. L’11 settembre fu per gli Stati Uniti una manna dal cielo. Una manna che, secondo alcuni, è stata aiutata a scendere anche se forse poteva essere in qualche modo fermata. Un “qualcuno” aveva osato attentare alla democrazia americana, aveva ferito non solo l’orgoglio della superpotenza ma il cuore di milioni di americani. Perché?

Leggendo alcuni giornali di quei fatidici giorni si apprende che sia il padre che un fratello di Bin Laden (il cavalliere dell'apocalisse presumibilmente scomparso) morirono in circostanze misteriose, tutti e due in un incidente aereo. Guarda caso nel periodo in cui erano in affari con la Compagnia Petrolifera della famiglia Bush. Più che una guerra questa sembrava una faida.
Però funzionanò. La vendetta di migliaia di famiglie americane che avevano perduto un caro nel crollo delle Torri rimase per anni in cerca del colpevole: un colpevole che a mano a mano del passar del tempo si stava trasformando in un’entità eterea.  
Con un Bin Laden in circolazione, amico di Saddam occorreva colpire l’Iraq – attenzione! - non solo perché si supponesse in possesso di arsenali atomici, chimici o di ogni altro tipo immaginabile (sono in molti i paesi della terra a costruire bombe atomiche), ma perché osava sostenere il terrorista Bin Laden; il peggior nemico degli americani colpiti al cuore per la scomparsa dei loro affetti. Miglior amico degli U.S.A. quando Taliban e Mujaidin combattevano contro le truppe sovietiche in Afghanistan. Motivo più convincente di quanto potesse essere la minaccia della bomba atomica – per il popolo americano – con la quale, oramai, ci si era abituati a convivere come fosse una sorta di assuefazione.

Per il resto del mondo, però, credere alla “favola bella” era più difficile. Certo gli U.S.A. erano, e restano ancora, nel cuore di molti un simbolo di giustizia, i guardiani della democrazia o i poliziotti del mondo, ma la costruzione del consenso è parecchio complessa. Si instaurò quindi una propaganda di guerra a tutto campo. Se non si fermava immediatamente l’Iraq tutto il mondo era in pericolo. Strana storia come per i Taliban. E’ sufficiente, anche in questo caso, cercare alcune notizie sui giornali dell’epoca per sapere che il ministro della difesa U.S.A. Rumsfeld aveva avuto incontri ufficiali con Saddam Hussein a Bagdad, nel 1983-1984, all’epoca della guerra Iran-Iraq, e in seguito a tali incontri gli USA fornirono a Saddam gli "agenti biologici" necessari per costruire le armi di cui gli agenti dell’Onu andarono alla ricerca.
Già…dove poteva colpire Saddam con la congrega dei terroristi islamici? Ovunque! Gli Stati Uniti d’America si autoconferirono il ruolo messianico e salvifico, di liberare il pianeta dalla minaccia. Dopodiché la ricostruzione dei paesi pacificati poteva permettere di costruire solide democrazie a immagine e somiglianza della principale democrazia mondiale. Tale era la “Teologia” contenuta nella propaganda dell’era Bush.

Vediamo come stanno [stavano] le cose da un altro punto di vista.

La guerra del Golfo era costata in tutto intorno ai 13 miliardi di dollari. Niente male per pochi giorni di “interventi chirurgici”. Inoltre aveva permesso di riconquistare con una dozzina di morti, da parte del messianico esercito, il controllo dei pozzi petroliferi.
Così recitava un comunicato - NEW YORK (Reuters) - Il consulente finanziario capo del presidente Bush stima che gli Stati Uniti potrebbero spendere tra i 100 e i 200 miliardi di dollari per fare una guerra in Iraq, ma dubita che l'offensiva possa spingere il paese in recessione o far salire  l'inflazione, scriveva ai tempi della fatidica guerra in Iraq il Wall Street Journal.
Questo significava, secondo gli esperti di bilancio, sopportare una spesa compresa tra l’1 e il 2% del Pil (U.S.A.). Si pensi, per avere un raffronto, che l’intero ammontare di riserve in dollari del Giappone all’epoca della guerra del Golfo era di circa 70 miliardi di dollari.
La situazione anche in questo caso può apparire ben diversa. Il problema non consisteva nella paura di inflazione, ma nella possibilità di sfruttare economicamente una spesa così enorme che poteva far ripartire alcuni settori produttivi stagnanti e risollevare una crisi strutturale. Si assiste oggi agli effetti prodotti dal mercato finanziario, che aveva assorbito investimenti non impiegabili nella produzione, dopo le bolle speculative degli anni è ’90.

La fase di contrazione materiale che aveva trovato sbocco, per i capitali eccedenti, nell’alta finanza (non è un caso la generalizzata deregulation in campo finanziario sul finire del XX scolo) esigeva l’alternativa concreta di un’espansione produttiva. Un paio di centinaia di miliardi di dollari non sono poca cosa. Fioccano commesse, si muove la rete economica che vi sta attorno. E non si dimentichi che gli investimenti militari hanno sempre sorretto l’economia statunitense non solo durante le due guerre mondiali.
L’appoggio tanto accorato (la complicità) del Regno Unito alla guerra in Iraq va visto nella prospettiva di accordi economici e commerciali privilegiati che dovevano seguire ad una possibile, quanto vana come è noto, ricostruzione economica: rimuovere le macerie di un paese distrutto frutta sempre per qualcuno altri miliardi di dollari. E l’Inghilterra non poteva permettersi di perdere terreno in Europa. 

Il petrolio, inoltre, rappresenta oltre il 50% del consumo energetico della Terra: esso resterà ancora per parecchi anni a venire la maggiore risorsa di energia esistente e più facilmente sfruttabile nonostante si continui a parlare di risorse alternative. Questo ne fa il più potente strumento di controllo economico. Il controllo dei pozzi di petrolio significa anche controllo del prezzo del petrolio di conseguenza controllo, appunto, dell’economia mondiale. Ma quale minaccia più spaventosa per gli Stati Uniti! Altro che terrorismo! Se la guerra all’Iraq non fosse stato un affare le multinazionali e le banche non sarebbero sorte contro tale follia? Il Capitale prospera con le guerre chi ci rimette è l’altra parte del mondo: i lavoratori, i dannati del pianeta, chi vive con meno di un dollaro al giorno. Con l’aumento del prezzo del petrolio si può ricattare l’economia di un intero paese e chi vive nel ricatto sono i lavoratori! 

L’altra faccia della medaglia era che la guerra all’Iraq legittimava [e ha in effetti legittimato] agli occhi di centinaia di milioni di diseredati, poveri e sfruttati l’alternativa politica dei Bin Laden o altri aspiranti dittatori, anche una volta messo da parte il sanguinario Saddam, che forse non ha fece più vittime delle strategie di embargo impiegate dagli Stati Uniti e dagli ”stati servi”.
Non è tutto qui, c’è di peggio! 
La teologia salvifica e la sua logica perversa, a cui hanno anche aderito i paesi europei con la guerra “umanitaria” nella ex Jugoslavia, sta facendo rientrare nella normalità quotidiana aberrazioni di una convivenza (in)civile, che si ha il coraggio, la disonestà e l’indecenza di chiamare democrazia!

Come osservava Hobsbawn 1<<(…) questo secolo ci ha insegnato, e continua a insegnarci, che gli uomini possono imparare a vivere nelle condizioni più brutali e teoricamente intollerabili, non è facile cogliere fino a che punto (purtroppo in misura sempre crescente) vi sia stato un regresso verso ciò che i nostri antenati ottocenteschi avrebbero definito barbarie>>.
Questa barbarie si chiama disonestamente <<ordine mondiale>> e serve a mascherare l’egemonia americana e i delitti del Capitale.
Di fronte a questa barbarie i lavoratori debbono e possono fare qualcosa. Questo qualcosa è riprendere la lotta di classe che oggi con la internazionalizzazione del Capitale a maggior ragione non può non essere mondiale. Le false promesse del benessere per tutti avevano convinto qualcuno che questo fosse veramente l’unico mondo possibile. Oltre vent’anni  di neoliberismo hanno inasprito e aggravato il conflitto e il divario tra nord e sud del mondo, tra centro e periferia del mondo. All’interno dello stesso centro è cresciuto il divario economico tra le élite dominanti e la classe lavoratrice che assiste al sistematico annullamento delle conquiste del passato.
Lo sfacelo economico di questi ultimissimi anni sembra aver fatto dimenticare che le strategie di conflitto sul piano mondiale vanno ricercate nelle logiche di conservazione del capitale e delle classi dominanti capitalistiche, e dei sui servi.
Occorre opporsi ai massacri delle guerre combattute con gli eserciti, ma anche alle guerre del Capitale contro il lavoro. Gli strumenti per combattere sono lo sciopero generale, le manifestazioni, l’autorganizzazione, la lotta sui posti di lavoro. Non possiamo aspettare ancora!

1 Già citato in 

Meglio chiarire da subito. Premesse a sucessive considerazioni

giovedì 28 giugno 2012

Ipotesi sul comunismo. Ecco un effetto positivo della crisi!


A parte la stampa borghese per la quale, dal momento che tutti i mass media la rappresentano, non sono necessarie citazioni pullulano un po' ovunque considerazioni ed analisi intorno ad una prospettiva futura possibile, praticabile, sperabile o auspicabile di passaggio ad un nuovo sistema di cose. Ecco un effetto positivo, tra tutti i disastri e gli sconquassi prodotti, che l'attuale crisi acuta del capitale è riuscita ad ottenere.
La ripresa del dibattito sulla necessità di una svolta storica verso il socialismo, a parte considerazioni dotte e dialettiche utili a dargli forza, eccita in me un profondo godimento nel confutare gli idioti che lo davano ormai per morto.

http://www.laclasseoperaia.blogspot.it/
Non so se per altri sia accaduta nel quotidiano la medesima cosa, ma ho dovuto sopportare ancora in questi recentissimi anni teste vuote che attribuivano lo sfascio sociale e culturale, oltre che la colpa di aver prodotto un sistema malato in cui i giovani non hanno futuro, alle lotte e alle aspirazioni di chi negli anni '70 sognava “l'immaginazione al potere”. Ora è vero che di stronzate se ne sono dette e fatte in buona quantità, ma chi giudica le lotte socialiste appunto degli anni '60 e '70 non le vuol giudicare dall'interno, ma più banalmente e stupidamente si erge ad arbitro ed esperto senza saper esattamente ciò che è accaduto e quel che si è vissuto. Questo m'infastidisce, non il dialogo e il reciproco riconoscimento delle stupidaggini commesse.

Ora, i caratteri economici, culturali e sociali affermatisi in ogni angolo del pianeta hanno diffuso non solo un modo di produzione, ma schemi mentali e stili di vita che potranno estinguersi solo attraverso un mutamento di cui non ci è, probabilmente, nemmeno possibile intravedere i tratti distintivi così come i nostri antenati non avrebbero mai potuto concepire la nostra condizione attuale.
Credo che, in ultima analisi, uno degli errori che commettiamo frequentemente sia lo stesso di chi in passato vagheggiava la “Città terrena” senza considerare che per quanto possiamo sforzarci di immaginare soluzioni attendibili “volenti o nolenti possiamo pensare solo col pensiero che ci è contemporaneo” 1, andare oltre è una deviazione idealistica, un’illusione nella quale non ci si dovrebbe cullare, il che non significa che non si debbano costruire progetti.

Questa “chiacchierata” vuol essere di stimolo e semplicissima introduzione all'articolo Ipotesi sul comunismo. Note per una discussione /1 di Fabio Raimondi apparso in Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine e ripreso su http://www.sinistrainrete.info/
Cito il cappello introduttivo, che offre già il senso di continuità con gli articoli già proposti su questo blog sia per quanto riguarda i miei più modestissimi post sia per i più importanti interventi sempre di Sinistrainrete.

Parlare di comunismo oggi potrebbe sembrare un gesto desueto, per non dire nostalgico, una postura estetizzante e provocatoria o, peggio, la progettazione astratta di un’utopia. Non è così. Nonostante il tema sia del tutto escluso dal dibattito pubblico, esso è presente in alcune delle riflessioni politiche più interessanti del nostro tempo e si presenta come un modo per provare a capire le trasformazioni che stanno segnando il periodo di crisi in cui viviamo. La decisione di proporre una serie di affondi sul comunismo risponde al bisogno di confrontarsi con un discorso esigente e strutturato, anche se rimosso dalla fine del socialismo reale, per capire se può darci strumenti utili a entrare nel futuro comprendendo il passato e aggredendo il presente della crisi della globalizzazione capitalistica, ma anche quello della falsa alternativa dei «beni comuni» e del «soggetto mite».

Quali risposte dare per trasformare l'attuale stato di cose (discorso che si lega alla potenzialità di cambiamento) credo sia possibile solo considerando una visione d'insieme della condizione economica e politica mondiale. Pensare che a priori questo o quell'intervento “intranazionale” siano essenziali o meno mi pare fuorviante.
Certo esiste la necessità di azioni circoscritte e dipendenti dalla realtà locale e dalla comprensione della dimensione sociale ed economica regionale, ma il credere che esistano soluzioni buone su scala nazionale senza tenere conto di ciò che accade nelle politiche internazionali sarebbe insensato.
Se esista una via d’uscita nel futuro prossimo venturo dunque non saprei, d’altronde sarebbe pura presunzione affermare di conoscerla, indicarne una, inoltre, significherebbe sapere quale sarà il “soggetto della trasformazione” e ancor più difficile la risposta se, come sono convinto, il problema non può essere solamente politico ed economico, ma, anche umano, e tale presupposto costringe la risposta fuori della portata del singolo.

Credo non serva un’ipotesi politica, scaturita magari da qualche “governo” di destra o di sinistra, che derivi dalle logiche antagoniste abbondanza/scarsità o ricchezza/povertà soluzioni economiche, ma una progettualità collettiva in grado di connettere le diverse istanze sociali partendo dal basso, e che sappia anche andare oltre l’illusione della redenzione. Ma il credere che non serva un'ipotesi di tal fatta non significa credere che la risposta non debba essere principalmente politica e che se ne possa fornire una di tipo olistico (si veda Carlo Donolo: L’olismo politico è sempre reazionario). Il senso è semmai: la risposta non può provenire dalla politica legata alle logiche di potere.

Per concludere vorrei riflettere su un’affermazione di Braudel. 2
Braudel afferma che “se per Marx sono gli uomini a fare la storia” per lui “è la storia a fare gli uomini.”
Personalmente credo siano corrette ambedue le affermazioni non solo per il motivo che gli uomini costruiscono il proprio futuro attraverso ciò che “trovano immediatamente davanti a sé”, e non potrebbe essere altrimenti, ma in ogni caso relativamente a ciò che trovano è loro dato scegliere. E, ancora, non solo perché ciò che gli uomini trovano sono circostanze che essi non hanno scelto e solo in base a quelle possono agire e quell’agire è determinato da modelli economici e culturali, ma per lo strano motivo che l’uomo fa anche la Storia, scrivendola, analizzandola, interpretandola e criticandola con l’effetto che pur non essendo vero ciò che crede (potenzialmente a volte può essere vero e a volte falso) la modifica determinandola e può agire successivamente a “condizione” di ciò che è il risultato di quelle attività, oggi come ieri.

Da parte mia credo sia falsa l’idea che esista una tendenza innata a soddisfare in modo del tutto egoistico le proprie passioni ché implicherebbe una natura umana  orientata al particolarismo e all’individualismo, e in questo modo le possibilità di cambiamento sarebbero assai scarse. Ma anche in tal caso le risposte sono molto più articolate di una elementare separazione tra individualismo e socialità del 'essere' dell'umanità.
Credo, inoltre, che il mutamento dovrebbe passare attraverso il problema del come risolvere la complessità senza degenerare nella barbarie.

Per concludere, davvero: la Storia, ma ripeto quasi pedissequamente cose già dette – quella vissuta dal proletariato, dagli oppressi e dagli sfruttati in generale - è una truffa e una frode costruita da chi in maniera predatoria ha espropriato ciò che era di tutti, dell’umanità e di ogni singolo per conquistare e mantenere un potere, che al contrario di quello che per mezzo della cultura ha fatto credere immanente alla realtà ed ineluttabile, è stato invece soltanto inesorabile. Ecco, la differenza rispetto al passato. E' forse giunto il momento in cui si apre questa possibilità di comprensione alla maggior parte delle persone che vivono sulla faccia della terra tale tragico “destino”?

1 Parafrasando Foucault. Il passaggio è tratto da “Le parole e le cose” il quale dice esattamente – (…) il pensiero che ci è contemporaneo e con il quale, volenti o nolenti, pensiamo, è ancora ampiamente dominato (…) dall’impossibilità (…) di schiudere il campo trascendentale della soggettività (…)” pag. 271

2 La citazione esatta è: “Marx sbaglia quando dice che gli uomini fanno la storia. E’ più sicuro che sia la storia a fare gli uomini. E che questi la subiscano.” - Fernand Braudel - I tempi della storia : economie, società, civiltà - Dedalo 1986 - pag. 116. Non intendo soffermarmi sul fatto che la concezione di Marx, secondo me, andrebbe letta diversamente anche se l’autorità intellettuale di Braudel potrebbe far ritenere che tale fosse l’idea di Marx. D'altronde Marx afferma per esempio in “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte” - Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. - In tal modo il senso dell’affermazione “Gli uomini fanno la propria storia” ha un carattere meno perentorio. Comunque stiano le cose mi servo dell’esempio unicamente per considerare due posizioni diametralmente opposte.

sabato 23 giugno 2012

Capitalismo in decomposizione



Tutto crolla, il centro non regge più;
Si scatena nel mondo l’anarchia,
Dilaga la marea del sangue e ovunque
Il rito dell’innocenza annega…
                          Yeats


E’ evidente che la riorganizzazione del capitale sul piano dell’accumulazione richiede una diversa dislocazione geografica sotto tutti gli aspetti: produttivi, finanziari, strategici. Potremmo dire che la cosiddetta accumulazione flessibile richiede, per contro, una flessibilità geografica e in maggiore rilevanza per il potere finanziario. La conseguenza di questa trasformazione può essere definita in diversi modi, possiamo, se vogliamo, chiamarla anche globalizzazione, ma in altri termini sono tentativi di trovare nuovi equilibri, in senso lato, per rendere stabile il capitale. Molti degli effetti a livello mondiale sono palesemente visibili.
Accenniamo, non seguendo un ordine di importanza, ad alcuni di questi effetti.

  • L’estrema mobilità geografica del capitale richiede flessibilità nella produzione e in conseguenza ristrutturazione del mercato del lavoro.
  • La deregolamentazione finanziaria, per far fronte alla crisi, conduce a una straordinaria instabilità dei mercati in primo luogo azionari.
  • La crisi del capitale monopolistico porta a una nuova offensiva verso i lavoratori dunque a forme più repressive di organizzazione del lavoro, accrescendo lo sfruttamento selvaggio e, non da ultimo, a un maggior ricorso alla manodopera femminile, storicamente meno sindacalizzata.

Certo, lo scenario è complesso: alla proletarizzazione e/o sottoproletarizzazione in alcune regioni del pianeta possono corrispondere privilegi, maggiore remunerazione e nuove forme di aristocrazia del lavoro in altre regioni e nel contesto delle stesse profonde divaricazioni tra povertà e ricchezza. I tentativi di soluzione della crisi comportano a loro volta danni per lo stesso capitale. Per citare un esempio è sufficiente osservare come la diversificazione dei mercati e la proliferazione di nuovi strumenti finanziari 1 (swap, option e ogni tipo di derivati con funzioni speculative) e la conseguente necessità di controllo sui flussi internazionali, uniti all’incalzante informatizzazione e lo sfrenato utilizzo dell’alta tecnologia, finisce per aumentare i crimini finanziari. Aumento incontrollato della velocità di comunicazione e di informazione ed euforia degli iperprofitti della finanza virtuale hanno prodotto effetti devastanti. Effetti non voluti sul piano valutario, servisse un ulteriore esempio, innescano crisi che impediscono all’alta finanza di esercitare il dovuto controllo della ridistribuzione dei rischi che facendo saltare misure di coordinamento dei mercati provocano nuovi conflitti e nuove crisi.
Tutto ciò non è, però, strettamente deterministico né è inevitabile la flessibilità del lavoro imposta dal capitale: i lavoratori possono opporsi alla loro precarizzazione e al depuperamento e non subirlo passivamente.

Parlare di riorganizzazione del capitale e di accumulazione flessibile, inoltre, non significa andare dietro alla moda delle teorie post-fordiste. Riduzione della produzione manifatturiera e trasformazione del paradigma organizzativo convivono in zone geopolitiche diverse del mondo con i loro contrari, i sistemi produttivi tradizionali (tayloristi), dei paesi più poveri. Se prendiamo in considerazione che il totale delle merci prodotte in generale è superiore al passato, che l'insieme della materie prime utilizzate nel ciclo produttivo sono maggiori, che il prodotto lordo (escluse le congiunture, considerando piuttosto la lunga durata) è in aumento ovunque, non sembra che il mondo sia in una fase di deindustrializzazione, ma questo non significa misconoscere la realtà della ristrutturazione del capitale e la tendenza al controllo dei servizi sociali.

Apparentemente riforme sul piano istituzionale nazionale e conflitti militari 2 non hanno legami. Ma se guardiamo bene “aggressione” ai servizi pubblici (scuola, sanità, previdenza) e aggressione militare nelle zone geostrategiche sono soltanto aspetti diversi della stessa "dottrina". La pressione del WTO sugli stati nazionali e la progressiva privatizzazione e liberalizzazione sostenuta ed esercitata dalle compagnie multinazionali costituisce un ulteriore attacco al controllo pubblico delle risorse, prime tra tutte le risorse idriche che giocheranno, al pari delle risorse energetiche, un ruolo essenziale nel futuro fosco del nostro pianeta. E tutto ciò sta trasformando radicalmente anche il senso della nostra vita. Non è catastrofismo: chi lo pensa dovrà subirne comunque le conseguenze!

Nel lungo articolo Capitalismo in decomposizione? Marco Sacchi risale la Storia in un percorso sintetico che descrive l’alternanza dell’affermazione, consolidamento e decadenza dei vari sistemi di dominio per giungere ad esporre la logica intrinseca della fase di decomposizione del sistema borghese capitalistico distinguendola dalla semplice fase di decadenza.
Tra le tendenze che caratterizzano il “sostegno” da parte del proletariato al sistema attuale nella sua fase di crollo Marco Sacchi  riporta alcuni punti. Cito testualmente

Non bisogna trascurare l’influenza delle illusioni democratiche nella classe operaia. Ci sono diversi motivi del preservarsi di queste illusioni: 

1) Il peso all’interno di questi movimenti di strati sociali non proletari molto recettivi alle mistificazioni democratiche e all’interclassismo.
2) La potenza delle illusioni democratiche ancora presenti nella classe operaia.
3) La pressione della decomposizione sociale e ideologica sociale del capitalismo che favorisce la tendenza a cercare rifugio in un’entità “al di là delle classi e dei conflitti”, cioè lo Stato, che si presume potrebbe apportare un certo ordine.

Ciò che pare decisamente interessante ed essenziale, in effetti, è capire il motivo del consenso politico e sociale al sistema esistente di quelle categorie che più hanno da perdere dalla crescente affermazione della società tecnologica imposta dal Capitale attraverso ideologie neoliberiste che hanno fato scivolare in quest’ultimo ventennio le classi lavoratrici in un vortice che trascina sempre più in basso, perché è grazie a questo consenso diffuso che è possibile il perpetuarsi dei rapporti di dominio. In un saggio poco conosciuto Zigmunt Bauman indica in modo chiaro quale logica conduce all’effetto perverso che trasforma le vittime in carnefici di se stessi

I più numerosi tra i movimenti di protesta sociale cui la modernità da vita sono di gran lunga quelli che chiedono la ridistribuzione dei profitti, non la revisione della definizione di profitto o la distruzione del meccanismo di realizzazione del profitto. L’autorità della modernità e tutti i suoi articoli di fede escono rafforzati da questo genere di competizione. Pochi sono così entusiasti delle sue virtù come le sue vittime, e pochi (forse nessuno) sono così condiscendenti verso le sue pretese come coloro che sperano sia il loro turno nella rotazione del privilegio.” 3 

Ritengo, anche se andrebbe approfondita, che questa spiegazione riesca a scavalcare il funzionalismo ingenuo di alcuni marxismi che avrebbero la pretesa di spiegare tutti i comportamenti unicamente attraverso una logica lineare insita nei rapporti di produzione senza fare i conti con fattori complessi che non escludono anche effetti psicologici da cui a volte non è possibile fare astrazione.4  Finché esisterà un qualche consenso, quindi, al sistema sociale ed economico attuale non pare possibile eliminare ingiustizie, privilegi e dominio e si va alla ricerca di una soluzione che modifichi i rapporti dominanti/dominati quando in realtà lo scopo dovrebbe esser quello di eliminare questo ordine.


 1 In Italia, ad esempio, a partire dal 2002, dopo la grave crisi della “bolla speculativa” è possibile acquistare e vendere anche una sola azione sul listino principale di Piazza Affari. Inoltre, dal dicembre dello stesso anno, sono cambiate le modalità di negoziazione: è stata introdotta un'asta di chiusura delle proposte di negoziazione con modalità di esecuzione, le cosiddette Vac (valide solo in asta di chiusura). Il Mib storico nel dicembre 1999 era di oltre 28.000 punti nel febbraio del  2004 andò sotto i 20.000 mentre nel marzo 2009 scese addirittura sotto i 13.000.
  2 Si pensi ad esempio alle varie riforme nel campo dell’istruzione (scuola e università) portate avanti in questi anni e ai conflitti geopolitici ed economici come la guerra in Iraq, Afghanistan, ecc..
  3 Z. Bauman - Le sfide dell'etica - Feltrinelli 1996 - pag.220
  4 E questo non significa negare che la “vita sociale” nella sua più ampia accezione sia determinata dai rapporti sociali di produzione.


mercoledì 13 giugno 2012

Libri: Caos e governo del mondo



E’ dalla lontana (o vicina?) metà dell’ottocento che l’occidente, o in altre parole il sistema borghese governato dal capitale, ha preso consapevolezza del fatto che le crisi economiche, attribuite in passato a eventi naturali quali siccità, alluvioni, oppure a conflitti bellici ecc., erano fenomeni da attribuire a condizioni esogene al sistema, a cause, dunque, esterne al sistema stesso.

Uno degli eventi che scosse il mondo borghese intorno al 1846 fu una depressione economica che partendo dall’Inghilterra si diffuse in tutta Europa e in tutto il mondo capitalistico. Ogni strato sociale interpretò in modo diverso le origini di quella crisi e in particolare la borghesia cominciò ad attribuire la colpa a speculazioni finanziarie eccessivamente temerarie.

Ci ritroviamo oggi a distanza di oltre 150 anni sempre e nuovamente con lo stesso ritornello. Perché? Che succede in realtà?
Intorno agli ‘20 del novecento un socialista di nome Kondratiev attraverso alcuni studi pervenne alla conclusione che l’economia capitalistica era soggetta in conseguenza di determinate logiche a crisi cicliche.

Queste confortanti spiegazioni convinsero gli apostoli del Capitale e suoi missionari che fosse sufficiente, purché inesorabile, prevedere e controllare tali crisi e che tramontato il periodo buio si inaugurasse una nuova epoca di espansione e di splendore per il mondo governato dall’utopia del Capitale. Le cose in realtà stanno in modo ben diverso.

In questo saggio Arrighi e Silver partendo da un’analisi fondata dallo storico Braudel e attingendo al metodo della teoria del sistema-mondo di Wallerstein offrono una prospettiva diversa di come stanno le cose e del futuro del Mondo.
I cicli storici di cui ci parlano i due studiosi in Caos e governo del mondo, edito nel 2006, non hanno a che vedere con i suddetti cicli di  Kondratiev e in modo ben più fondato giungono a previsioni che nella prospettiva odierna paiono appropriate.

domenica 10 giugno 2012

Mutualismo? Autogestione?



Non è per polemica con qualcuno in particolare, ma occorre qualche riga per chiarire alcune questioni che riguardano concetti che sono spesso sbandierati da movimenti politici libertari come fossero attuabili e di attualità: uno dei più nominati è per es. il cosiddetto mutualismo. Per quello che riguarda tali sistemi in relazione alla realtà politica, sociale ed economica andrebbero esaminate da vicino alcune condizioni in grado di favorire in misura maggiore o minore la loro realizzazione. Le condizioni che hanno favorito forti processi autogestionari sono ben descritte e documentate da Pierre Ansart 1 che mostra come essi siano nati e si siano sviluppati, in Francia nel caso specifico, dal mutualismo propugnato dai capi laboratorio dei setaioli lionesi.


Andrebbe posta l’attenzione, a mio avviso, sulla cornice storica risultante da una serie complessa di fattori: tra i quali occorre evidenziare il passaggio da un sistema ancora caratterizzato da elementi feudali a quello fortemente industrializzato2 che cambiava il volto della composizione socio-economica e spingeva alcuni ceti alla difesa della propria autonomia. I capi laboratorio, come rileva Ansart, trovandosi alla mercé dei fabbricanti, che imponevano prezzi e condizioni di mercato (per esempio la caratteristica delle tele: colori, foggia, ecc... e non da ultimo scadenze di consegna e quindi anche ritmi di lavoro), erano trasformati in semplici salariati costretti a difendere, a differenza della semplice manodopera, oltre il proprio lavoro anche i loro mezzi di produzione. In tale cornice è da inserirsi anche la visione della “democrazia industriale” di Proudhon.

Negli anni ‘80/’90 pareva riemerso tale modello specie ad opera di Piore e Sabel. La cosiddetta accumulazione flessibile potrebbe avere in qualche modo riprodotto con la deindustrializzazione e col conseguente decentramento produttivo e organizzativo condizioni omologhe sul piano sociale (polverizzazione di attività autonome, Capitalismo molecolare) e geografico (minore accentramento produttivo a livello territoriale). Quanto tutto ciò sia in grado di incoraggiare forme di mutualismo sulle tendenze proudhoniane andrebbe largamente esplorato attraverso lo studio di casi concreti. Certo è che, come rilevano in molti, la flessibilità si accompagna anche al corporativismo degli interessi e a soluzioni, potremmo dire, del tutto strumentali e non guidate da una tensione politica e sociale. La stessa enfasi posta sulla piccola iniziativa privata e sulla “imprenditorialità” no profit potrebbe essere una sorta di utopia controllata come osserva David Harvey a proposito della crisi economica degli anni ’30

Essi [i suoi lavoratori] dovevano, sosteneva Ford, coltivare le verdure nei loro giardini durante il tempo libero (…). Insistendo sul fatto che il fare da sé era <>, Ford si trovava a sostenere quel tipo di utopia controllata, fatta di un ritorno alla terra (…) 3

Nel caso attuale la promessa di uscire dalla crisi risiede, ormai da qualche anno, nella necessità di “mettersi in proprio”, ma mi pare che il parallelo non sia del tutto insensato.
Di seguitò cercherò di delineare molto brevemente e a livello complessivo i motivi del mio personale scetticismo riguardo le possibilità di estendere processi autogestionari in grado significativo sul piano politico almeno per quanto riguarda la realtà in Italia, non senza qualche “incursione” nel generale.

Ritengo che la trasformazione prodotta dal capitale nella seconda metà del XX° secolo abbia mutato profondamente ed in modo irreversibile quelle condizioni sociali che hanno permesso in passato forme di conflitto sollevate da processi storici di autoorganizzazione della classe operaia. Ed un ripensamento delle prospettive autogesionarie deve partire appunto dall’analisi dell’attuale scenario.
La profonda trasformazione a cui abbiamo assistito soprattutto in questo ultimo mezzo secolo è dovuta, sinteticamente, a quel complesso fenomeno che alcuni autori definiscono in diversi modi: rivoluzione informatica, società dell’informazione o, ancora, terza era, che pare abbiano agito con una tendenza alla disgregazione dei rapporti personali. Ma ritengo vadano individuati altri fattori nella concorrenza tra istanze sociali, poteri politici e capitale.

Per quanto riguarda il progresso sociale possiamo osservare un’acquisizione formale delle rivendicazioni sociali anche attraverso la legislazione un aspetto, quest’ultimo, che non sempre viene messo in evidenza come dovrebbe, si dimentica, infatti, l’importanza che la legislazione riveste nell’attuazione delle politiche che le alterne maggioranze tentano di realizzare 4. Con le recenti normative introdotte sul finire del secolo scorso è stata attuata un’ulteriore ristrutturazione che ha vanificato da un lato il conflitto aperto negli anni settanta, volto a costruire un processo di democratizzazione dal basso, dall’altro un possibile cambiamento radicale delle istituzioni. Negli anni '90 era stata scatenata una vera e propria aziendalizzazione selvaggia vanificando la possibilità di una trasformazione “etica” del settore pubblico.

In questi anni credo che le riforme dello “stato sociale” siano state ottenute proprio in virtù di normative che hanno permesso di imprimere l’accelerazione necessaria ad un cambiamento teso non solo a contrastare le conquiste del ventennio di lotte avvenuto negli anni '60 e '70 del secolo precedente, ma ad impedire possibili interventi in senso sociale.
Seppur schematiche le osservazioni sin qui fatte mi paiono sufficienti per esaltare almeno alcune differenze rispetto alla realtà sociale, economica a politica che aveva animato in passato alcune forme di organizzazione e di lotta. Se gli spazi di esistenza possibili diretti a politiche autogestionarie sono regolamentati appare ben difficile la costruzione di realtà concretamente antagoniste al sistema. Elementi costitutivi, inoltre, come la necessaria composizione socio-economica, di dette pratiche pongono un limite alla possibilità di sviluppo verso una “massa critica”.

Riprodurre le forme storiche di riappropriazione di spazi sociali e politici è quindi estremamente difficile se non impossibile da ripensare.
Certo, possiamo assistere da diversi anni, a tentativi di rielaborazione di forme autogestionarie definite di “scambio informale” e non c’è dubbio che lo scambio informale, inteso come rapporto di scambio al di fuori del circuito commerciale e di mercato, si presenti di per sé potenziale momento di conflitto, ma il problema risiede, e la realtà lo ha dimostrato, nella impossibilità di estendere in modo critico il processo 5. Vale a dire l’autogestione non garantisce la radicalità e l’allargamento delle lotte in misura necessaria al mutamento sociale.
Senza soffermarmi in modo specifico sul problema credo si possa osservare che là dove si è avuta un’evoluzione verso lo stato sociale minori sono stati i processi autoorganizzativi 6, e anche la revisione del welfare seppur rimette in gioco lo stato sociale pare essere una riforma che ingabbia gli obiettivi di ricomposizione di una soggettività dispersa in mille rivoli.

Occorre non sottovalutare il recente sviluppo, in tutta l’Europa, di quell’economia definita non profit market che secondo alcuni ha un alto valore sociale, e che è caratterizzata da principi di natura solidaristica e mutualistica. “Il fenomeno in esame infatti è a volte qualificato, appunto, come terzo settore, indicando essenzialmente l'associazionismo a fini non lucrativi e quindi comprensivo del volontariato, della cooperazione, della mutualità” 7. Un’economia dunque che si vorrebbe fondata su quei principi di reciprocità e auto-aiuto che in passato erano ritenuti di “lotta” e di ricomposizione di conflittualità altrimenti disperse.
Il trasferimento di funzioni pubbliche dal sistema di welfare al Terzo Settore è una prassi che consente di assorbire forze antisistemiche e trasformarle, regolamentandole, in servizi sociali col relativo risultato di scaricare i costi collettivi sul singolo. Certo anche il welfare era un costo che colpiva la collettività, ma la collettività intera, aziende, cioè Capitale, compresi. Lo smantellamento del welfare ha "agito" diversamente: alleggerendo le imposte che colpivano le aziende il costo dell’assistenza sta ricadendo solo sul singolo cittadino, in misura ovviamente maggiore sul lavoro dipendente.

L’autogestione intesa nel senso del no profit è dunque in realtà un mare di cooperativismo istituzionale dove annega ogni tentativo di conflitto col Capitale e i rapporti di reciprocità sono fissati da “buone pratiche” procedurali.
Questo contribuisce a cambiare il volto della condizione sociale che in passato, come si è detto, ha ispirato numerosi tentativi autogestionari.
Date queste condizioni la questione che intendo considerare è: quanto le forme autogestionarie siano capaci di creare conflitto, da un lato in rapporto al modo di produzione capitalistico, dall’altro lato in senso funzionalistico con il ruolo regolatore dello Stato.

I due aspetti rispondono ovviamente a problematiche ben diverse per precisi motivi. L’uno riguarda i rapporti con l’economia di mercato. In tale logica perché i sistemi non monetari, per esempio, siano antitetici alla riproduzione delle merci, occorre abbiano la capacità di veicolare un valore d’uso sufficiente da destabilizzare il sistema produttivo. Sappiano quindi rendersi alternativi al paradigma economico dominante.
L’altro concerne i rapporti che stanno alla base della legittimazione dello Stato. Questo significa capacità di contrapporre modelli partecipativi estesi e indipendenti dall’arena politica, e non solo, che restino necessariamente (credo) autosufficienti perché non divengano oggetto di public policy stabilite dalle pubbliche amministrazioni.

Sotto questi aspetti non sembra per ora possibile dare risposte positive. I sistemi considerati rimangono per ora confinati a dimensioni del tutto locali ed estremamente limitate. Perché possano svilupparsi, concludo, richiederebbero condizioni politiche e sociali favorevoli difficili da individuare giacché le strutture di dominio sono in continuo mutamento e si adattano, quando non è possibile guidare direttamente il cambiamento, per esempio nel tessuto sociale, alle realtà locali.
Tali considerazioni non intendono, però, ignorare l’importanza sul piano astratto che le trame sociali presenti potrebbero avere nel futuro di una trasformazione radicale del sistema sia economico che sociale. Non tutti gli attori del terzo settore sono perfettamente incardinati nell’economia capitalistica e potenzialmente, limitatamente a realtà regionali (in aree maggiormente autosufficienti), potrebbero stimolare rapporti associativi e aggreganti nella struttura comunitaria oltre che economica. Il discorso a questo punto diventa eccessivamente complesso e va oltre queste brevi note.
Concludo con l’esortazione a non lasciarsi incantare da forme idealistiche che in questo momento storico non porterebbero a nulla di concreto. Credo che il cambiamento oggi possa partire solamente da una forte organizzazione politica che parta dal basso, ma forte anche nei numeri.

Note

1 Pierre Ansart - Nascita dell'anarchismo - Samizdat – 2000
2 Non è un caso la nascita del saintsimonismo volto a conciliare la lenta scomparsa dei valori d'epoca feudale e la nuova scienza positiva. Per Saint Simon occorre recuperare l'organicità del sistema passato, che l'illuminismo aveva reso decadente, per attualizzarlo rendendolo armonico con il progresso borghese. Questo poteva avvenire, secondo Saint Simon, soltanto con la costruzione di una società economicamente evoluta, ma fondata su principi cristiani e umanistici. A mio avviso alcune teorie sociali emergenti sono improntate al saintsimonismo seppur con sfumature e caratteristiche diverse, manca difatti la fede positivistica nella scienza, sostituita, in un certo senso, da una componente tecnocratica.
3 David Harvey - La crisi della modernità – Net 2002 – pag. 159
4 Le pratiche attuate attraverso le cosiddette “economie senza mercato” apparentemente sfuggono alle strategie di controllo del paradigma di produzione capitalistico, ma non sembrano, dai risultati ottenuti, capaci di raggiungere lo sviluppo necessario per cambiarlo. In ogni caso non significa che debbano essere abbandonate. Personalmente credo che esperienze accumulate in questo senso possano in futuro essere di base per una diversa organizzazione sociale.
5 “l’effetto finale di un graduale mutamento nella procedura amministrativa può, a lungo andare, dare luogo ad un nuovo principio” - Mannheim op. cit. pag. 125.
In Italia, per ragioni del tutto particolari, non è difficile constatare che il dettato costituzionale ha recepito tutta una serie di principi volti a stabilizzare la pace sociale e la cooperazione nella cosiddetta “società civile”.
6 “Lo stato sociale, si potrebbe dire semplificando un po’, ha reso la ricerca di forme autoorganizzate di produzione dei servizi (apparentemente) superflua.” C. Offe e R.G. Heinze - Economia senza mercato – Editori Riuniti 1997.
Certamente l’affermazione non si dovrebbe generalizzare, ma va notato che, per esempio, in Italia ed in Germania dove il Welfare State è (o meglio era) più diffuso sono minori le esperienze mutualistiche, mentre queste ultime sono più vivaci e attive negli U.S.A.
7 come viene espresso da un'indagine conoscitiva sul terzo settore svolta dalla Commissione affari sociali della Camera.

giovedì 7 giugno 2012

Carlo Donolo: L’olismo politico è sempre reazionario


Articolo che affronta alcuni argomenti trattati in questo blog in modo stringato e lucido. Le sottolineature sono mie e pongono in risalto i punti salienti e più significativi. Buona lettura

Tratto da www.sinistrainrete.info

Un’ondata anonima di romanticismo annacquato e di nostalgia religiosa che l’età delle macchine ha per un certo tempo emanato come manifestazione di protesta spirituale e artistica contro di essa”. 
Robert Musil

Non intendo con queste righe rispondere alle tesi di Ugo Mattei (Beni comuni. Un manifesto, pp. 116, € 12, Laterza, Roma-Bari 2011), altri stanno già rispondendogli nel merito storico (cfr. Giuseppe Sergi e Massimo Vallerani, Riflessioni aggiornate, ma medioevo di maniera) preferisco ricordare solo che il processo della modernità è stato sempre accompagnato da critiche e contestazioni. Mattei si pone in un binario già molto battuto e in cui la ripetizione è dominante. La critica più importante è stata il romanticismo (Rüdiger Safranski, Romantik. Eine deutsche Affäre, Hanser, 2007), che ha anche influenzato in parte le reazioni della chiesa nel corso dell’Ottocento, dalla Restaurazione in poi. C’è sempre stata una domanda di olismo, di ricomposizione dei cocci, di superamento dell’alienazione e così via. Ha preso le forme più diverse, ma con una costante, di cui Mattei dovrebbe essere avvertito: mentre sul terreno culturale ha prodotto anche grandi capolavori, sul piano politico e sociale questa domanda è sempre stata necessariamente reazionaria, direi senza eccezioni. Non può che portare a una concezione organicistica della società con i suoi esiti autoritari e totalitari.

Detto ciò il discorso pubblico sui beni comuni è troppo importante perché venga buttato nella palude degli olismi, che non c’entrano niente. I beni comuni, come argomenta bene anche Pietro Costa in un suo scritto recente (Fondazione Basso, 2012), sono destinati a crescere anche come mero elenco (aperto) nella globalizzazione. In parte li andiamo riscoprendo poco a poco man mano che entrano in crisi o ne cresce il fabbisogno, in parte li andiamo producendo quanto più ci muoviamo verso la società della conoscenza, e verso la proliferazione di mondi virtuali e artificiali. I beni comuni come tema, risorsa sociale e vocabolario potranno dare una grande mano nella necessaria e urgente ricostruzione del regime democratico dopo la sua impasse attuale. Saranno sempre più anche materia di movimenti collettivi e di attivismi civici. Per questa ragione è bene che se ne parli con la massima precisione e affidabilità. E in particolare deve essere chiaro che nessun problema dei beni comuni, e in particolare nessuna loro tragedia, potrà essere trattata fuori dai moderni contributi della scienza e della tecnica. Se si dovesse recidere il ramo della modernità su cui sono fatalmente (in tutti i sensi) seduti, essi non potrebbero che affondare nell’ingovernabilità più totale (credere che bastino i resuscitati saperi locali, magari taciti, è pia illusione, se non altro per la scala dei fenomeni oggi implicati). I movimenti collettivi servono a imporre nuovi temi e nuove agende, ma non sono in grado di gestire alcunché, non è il loro lavoro. I beni comuni sono beni della media e lunga durata storica e sociale, transgenerazionali per definizione, mentre i movimenti sono quanto di più effimero il politico o l’antipolitico possano esprimere.

Fuori dagli equivoci di un postmodernismo reazionario, il terreno di sperimentazione più praticabile è quello di un nuovo modello di gestione dei beni comuni locali (e Mattei è meritoriamente attivo in questo senso) ripartendo dall’ipotesi di base di tutta la teoria: esistono alternative alla proprietà privata e al controllo pubblico. Tali alternative non sono date ma occorre progettarle, compito tanto più difficile perché non esistono più beni comuni locali che siano solo locali. Ogni bene è immesso in un circuito di livelli fino al globale, di conseguenza, ogni bene comune locale è anche patrimonio dell’umanità. Da qui una serie di questioni istituzionali e di governance di non facile soluzione. Eppure questo è il tema su cui lavorare.

Infine, queste forme di governo dei beni comuni, quali che siano o saranno, sono inserite in una complessa struttura istituzionale e costituzionale, il regime democratico maturo, oggi molto fatiscente e bisognoso di profonde riforme. Queste consisteranno, se mai, in una pluralizzazione delle forme istituite e istituenti della democrazia, a complemento, risanamento e controllo della democrazia rappresentativa. Forme di democrazia economica, sociale, culturale e così via, partecipata, deliberativa, ma anche diretta in certi casi particolari, con una nuova generazione di soluzioni referendarie e sondaggisitiche (e-democracy in senso lato).

Il tema dei beni comuni sta emergendo lentamente anche in Italia come un tema politico dirimente. Nella cultura politica tradizionale non ce n’è traccia, del resto la stessa sostenibilità non è mai entrata seriamente nel vocabolario politico usuale. Questo ritardo culturale e valoriale sarà fatale soprattutto per la sinistra, ridotta ormai a un ruolo meramente reattivo e interstiziale. Occorre lavorare perché il linguaggio dei beni comuni, con tutte le loro implicazioni culturali e politiche, modifichi tale vocabolario, e qualifichi lo stesso discorso dei diritti, ancora oggi troppo astratto e talora velleitario. Si tratta di mettere in agenda il governo dei beni comuni e di far tornare in posizione primaria anche la produzione e la gestione dei beni pubblici, compresi quelli più tradizionali. Il mercato ha già dato tutto quello che poteva, comprese le sue perversioni. L’amministrazione pubblica sarà riqualificata tramite l’impegno su questi terreni rinnovati: beni pubblici e beni comuni da curare con attenzione, altrimenti altro che futuro!

Un grande lavoro culturale in primo luogo rivolto al “popolo” stesso, un punto dirimente che sembra sfuggire al neopopulista Mattei: principale portatore dell’interesse nei beni comuni, ma non più capace di praticare questa funzione se non dopo un lungo processo di apprendimento di altre e migliori preferenze. Il popolo fuori dalla politica e dalla costituzione non esiste come soggetto. O esiste solo come sindrome populista con il cuore di tenebra – anche se usa parole di sinistra – dell’autoritarismo e della delega al capo. Basta di tutto ciò. Il popolo oggi è un prodotto altamente contaminato dall’economia del consumo, della messaggio pubblicitario, un popolo di consumatori più ancora che di lavoratori e meno che mai di cittadini. Cittadini lo si diventa, certo anche e magari soprattutto nei movimenti. Ma non basta. Il popolo oggi non è un dato neppure sociologico, deve riflessivamente rinascere come attore della cittadinanza, ristabilendo il contatto con il governo dei beni comuni e quindi con i sistemi di regole, di autoregolazioni e dei mazziniani doveri. Tanti beni comuni non sono stati distrutti dalle multinazionali ma dal popolo stesso, reso miopie dalla “robba”, dal denaro e dal comune individualismo possessivo. Come liberarsi di queste scorie? Non è qui possibile rispondere. Sappiamo che ci sono indizi di possibili mutamenti, un lento riapprendimento di qualcosa che vale di più della seconda auto. Ma ce ne vuole. E, al “popolo”, glielo vogliamo dire facendogli sognare un secondo medioevo? Ma se non ne siamo neppure del tutto usciti, specie in Italia!

Alcune riflessioni sulla Storia

  Avvertenza. Questo articolo può essere considerato a tutti gli effetti una lunga nota a quello precedente https://umanitapolitica.blogsp...