mercoledì 25 luglio 2012

Quiproquo

Nel sito consigliato a fianco La Contraddizione al link Quiproquo è presente un interessantissimo "libello virtuale" (come viene definito nella stessa presentazione) che ha la veste di una piccola enciclopedia contenente svariate decine di voci (160 con diverse varianti).

Il lemma proposto è una variante della voce Valori.
Tutti i corsivi e i simboli presenti nel testo sono quelli originali. La freccia [<=] indica che nell'enciclopedia è presente quel lemma.
L'autore è Vladimiro Giacché [v.g.].

I valori personali - Magritte (1952)
“Dato che una religione che perdona spietatamente ha dato agli uomini la virtù come punizione per i loro vizi, gli imbecilli che governano il mondo hanno avuto l’idea di consacrare la morale come un bene di diritto. E ora la morale infuria contro l’umanità”: così Kraus. Si tratta di un giudizio che implica “valori”  [# 1, # 2,?] quali umanità, e altri concetti virtuosi quali morale [<=], diritto [<=], religione, virtù, ecc.
In cosa consiste l’inganno? Innanzitutto nel fatto di coprire, dietro il paravento di valori altisonanti ed astratti, prassi concrete mosse da ben altri (e ben più bassi) fini. L’esempio più recente è quello della “guerra umanitaria”. In questo senso i “valo­ri” (a partire dalla famigerata triade “Dio, Patria, Famiglia”) altro non sono che una mistificazione, ossia un mezzo per coprire una prassi reale che non di rado è non solo diversa, ma di segno addirittura opposto a quanto si va predicando. La saggezza popolare ha affidato a proverbi quali “predicare bene e razzolare male” la sanzione di questi comportamenti; ed esiste una folta letteratura, ad esempio, sui vizi dei monaci e dei preti, direttamente proporzionali al loro richiamo ipocrita ai valori ed alle virtù (per La Rochefoucauld “l’ipocrisia” era per l’appunto “il prezzo che il vizio paga alla virtù”: cosicché spesso alla virtù predicata finiscono per corrispondere vizi reali).
Ma l’inganno non consiste solo in questo: se così fosse, infatti, dovrem­mo ammettere che esista (o possa esistere) una prassi realmente ispirata all’“umanità”, alla “bontà”, alla “giu­stizia”, ecc. Il punto, però, è che questo è impossibile. Per il semplice motivo che – e qui sta il secondo inganno – che questi presunti “valori” assoluti (eterni, di significato univoco, validi per tutti i tempi e per tutti i luoghi) non esistono. I valori ai quali gli esseri umani ispirano la loro azione, infatti, nascono dalla concretezza della loro condizione storica, a partire dalle modalità con le quali avviene la loro riproduzione materiale; e andrà semmai ricordato che, sulla concretezza della condizione storica attuale e dei vigenti rapporti sociali, si innesta inoltre la tradizione, che rappresenta per lo più il precipitato di bisogni e relazioni sociali corrispondenti a precedenti epoche della riproduzione materiale.
“Valori” allo stato puro, insomma, non esistono da nessuna parte: i valori sono in perenne mutamento ed evoluzione – oltreché, sempre più spesso, in contraddizione tra loro anche nella stessa persona (così, la stessa persona può essere solidale nei confronti dei parenti più stretti e terribilmente egoista nei rapporti di lavoro: ma anche questo non si deve a un qualche astratto e fatale “politei­smo dei valori”, ma alle concrete condizioni di vita ed alla diversità e contraddittorietà dei ruoli sociali che convivono in una stessa persona).
Il mutamento e l’evoluzione dei va­lori, così come il loro contraddittorio presentarsi, sono funzione della vita materiale degli uomini e degli interessi che in essa si manifestano e si scontrano. Già, perché questi interessi non sono comuni a tutti: l’inte­resse dei lavoratori non coincide – non può coincidere – con l’interesse dei padroni. E quindi i valori degli uni non coincidono – non possono coincidere – con i valori degli altri. Ma, si dirà, e l’interesse alla conservazione della vita della specie e della stessa vita sul pianeta – oggi essi stessi minacciati dal “valore” del capitale [<=] (ossia dall’incoercibile tendenza del capitale a valorizzarsi, ad accrescere la propria massa a scapito di tutto e di tutti)? Non dovrebbero, questi interessi, accomunare tutti? Nei fatti vediamo che così non è: vediamo che la riduzione dei gas inquinanti (provatamente letali per il pianeta) viene impedita; vediamo che l’energia atomica viene riproposta come necessaria, perché “l’economia non può fermarsi” [Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2001]. Questo perché la classe [<=] capitalistica, la classe che incarna la tendenza del capitale ad autovalorizzarsi, concepisce questa tendenza come il “valore” supremo. E oggi riesce addirittura a convincere le classi subalterne che questo “valore” è anche il loro valore, che i suoi interessi di classe sono anche i loro interessi di classe. Ovviamente, questo ragionamento può essere e deve essere rovesciato: sono gli interessi delle classi subalterne ad esprimere gli interessi del­l’umanità, a cominciare dal fatto che solo il perseguimento e la vittoria degli interessi delle classi subalterne appare in grado (oggi più che mai) di impedire “la comune rovina delle classi in lotta”. Non però nel senso – lo ripetiamo – che gli interessi delle diverse classi immediatamente coincidano: semplicemente, l’abolizione dello sfruttamento e della proprietà [<=] privata dei mezzi di produzione è la condizione necessaria per evitare la rovina comune. In tutto questo, i valori dove restano?
I valori restano ... indietro. Nel senso che tengono dietro agli interessi (di classe) e da essi sono plasmati, guidati, utilizzati. Dobbiamo, insomma, operare una sorta di rovesciamento, per rimettere nel giusto ordine le immagini capovolte dalla camera oscura dell’ideologia. I valori (storicamente e socialmente determinati) sono il mezzo, gli interessi (socialmente e storicamente determinati) rappresentano il fine dell’azione sociale. Si noti bene: questa natura di mezzo dei valori riguarda anche quello che probabilmente è l’unico “valore” correttamente attribuibile alle classi subalterne nella loro lotta per l’emancipazione: il valore della “solidarietà”. Che nell’accezione autentica del movimento operaio comunista non ha nulla a che fare con la “solidarietà” di cui parla il cosiddetto pensiero sociale della Chiesa (ossia il solidarismo, la caritatevole mano tesa verso “i deboli”, verso “chi resta indietro” ecc.): la “solidarietà”, dicono le parole di una delle più belle canzoni del movimento comunista [il Canto della solidarietà di Brecht-Eisler], è invece semplicemente ciò “in cui risiede la nostra forza”, ossia l’unione fra eguali per conseguire un obiettivo comune.
Se questo è vero, è chiaro che la fuga nei valori, il riferimento sempre più ossessivo ed inflazionato ai valori, culminato nel nostro Paese nella presentazione alle ultime elezioni addirittura di una lista denominata “l’I­talia dei Valori”, rappresenta un aspetto fortemente regressivo dell’at­tuale situazione sociale e politica. Per diversi motivi.
1) Perché rappresenta un’accetta­zione del rovesciamento della gerarchia reale tra bisogni/interessi e valori: se questi ultimi altro non sono, nella realtà, che modi di concepire e di conseguire quegli interessi, il rovesciamento ideologico li ipostatizza e ne fa degli “apriori” assoluti.
2) Perché rappresenta una fuga nel­l’astrattezza di valori (assoluti, astorici, universali) che hanno perduto (in questa visione mistificata) ogni concreto referente reale, nella prassi delle relazioni e dei conflitti sociali.  
In questa dimensione mistificata – nella migliore delle ipotesi (ossia nel caso che essa non sia frutto di malafede) – ci si muove in tondo: ricevendo conferma della propria bontà (ad esempio nei confronti delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, concepite come “gli ultimi”, “i deboli”, “i bisognosi” – e non, come sarebbe giusto, come popoli sfruttati da ben individuabili meccanismi economici, in conformità a ben precisi interessi di classe) proprio dalle proprie sconfitte e dall’inevitabile inanità dei propri sforzi.
3) Perché rappresenta un ulteriore gradino nella scala discendente che dalla coscienza di classe [<=] e dalla solidarietà praticata (sovente in maniera spontanea) tra i lavoratori aveva condotto all’ipostasi della “missione del proletariato”. Ed effettivamente, dal­la missione all’apostolato, e da questo alle opere di carità il passo non è affatto lungo ... Per dirla nei termini del (desolante) dibattito a-sinistra, questo e non altro è il significato del­la transizione dal “militante-missio­nario” al “volontario” (dove il minimo che si possa dire è che il rimedio è assai peggiore del male ...).
Rispetto alle elucubrazioni di questi teologi di ritorno, ben altra lucidità è dato riscontrare, come è ovvio, tra i funzionari del capitale: che sono addirittura in grado di liquidare il tema dei valori in due battute.
Come faceva, in un recente articolo dedicato ai “fondi etici di investimento”, la “responsabile del bilancio socio-ambientale” [sic!] di una delle principali società italiane: ossia dichiarando che “non si può creare va­lore senza valori” [Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2001].
I valori sono indispensabili ... in quanto servono all’autovalorizzazio­ne del capitale. Che, come volevasi dimostrare, è il Valore supremo. E in questo caso – ma solo in questo – la maiuscola ci sta proprio bene. Anche l’analisi del linguaggio [<=] ci permette di ripercorrere nelle parole la direzione del movimento reale. Già Marx ricordava – nelle  sue Glosse a Wagner – che il termine di “valore” (Wert) in origine designava le “cose utili” intese come “valori d’uso”. L’i­deo­logo pragmatista americano William James, un secolo fa, parlava di “valore in contanti” delle idee, oggi possiamo parlarne anche per la Morale e Dio, da cercare sulla pagina delle quotazioni di borsa.
[v.g.]

lunedì 23 luglio 2012

Destra, sinistra. Centro? Boh?


Destra e sinistra, centro, centristi, moderati e meno moderati (come se esistessero reali differenze) si accapigliano, schiere sparpagliate e sbandate di movimentisti grillini o papagallini si azzuffano ostentando e sbandierando soluzioni e medicine per guarire le ferite della belva economica del capitale e politica delle borghesie.

Patetici fantocci mossi dal comando capitalista litigano (o fanno finta?) per decretare elezioni anticipate, che tutti temono. E mica solo in Italia!
La Spagna non ha preferito Rajoy a Zapatero? Contenti di non avere più la tredicesima, sull'orlo del default, come se col "campione" socialista non sarebbe stata la stessa musica, tirano avanti. Non parliamo della Grecia e di tutto il resto.

Appunto! Tutto il resto! Perché è proprio tutto il resto che conta assieme all'una e all'altra cosa. Ma tanto chi dovrebbe capire non capisce. L'illusione è giunta ad agire tanto profondamente da rendere reali differenze che non esistono. E se qualcuno crede a qualcosa, pur se quel qualcosa non esiste, lo rende reale. Forze, invece, "veramente" reali stanno dissipando false credenze e una maggioranza silenziosa comincia a mettere in dubbio la "realtà" dell'illusione. La questione è che la "questione" non è politica, sarebbe assai facile, in effetti. Basterebbe votare un aborto di partito, ma che fosse quello giusto, e tutto andrebbe a posto.

Ovviamente non è così. Nemmeno con quella specie di colpo di stato che ha sostituito ad un satrapo un tecno-dirigente con perversioni finanziarie invece che sessuali si è riusciti a risollevare un sistema statale ed economico ormai frantumato a tal punto che nessuno può e non potrà mai rimettere assieme.
Appunto! Perché la questione non è politica e nemmeno tecnica, se così si può dire. E' l'intero sistema che è franato. Qualcuno pensa che una montagna franata si riuscirebbe a riportare allo stato originario? OK, benissimo. Tutto bene. Andate a votare per il parlamento democratico.

Di seguito un estratto dell'introduzione a Oltre l'austerità scaricabile gratuitamente su MicroMega
Perché proprio questo?
Forse per leggere qualcosa?

Questo volume, generosamente ospitato da MicroMega on line, raccoglie una serie
di contributi sulla crisi economica in Europa. Essi sono, in parte, l’espressione di punti di
vista diversi sia sulle origini e sull’evoluzione della crisi che il nostro continente sta
attraversando, che con riguardo alle implicazioni economiche delle possibili vie d'uscita.
Più che le differenze, è tuttavia importante l’elemento che accomuna gli autori dei
contributi, e cioè l’obiettivo di presentare un’analisi della crisi economica in Europa che sia
libera dagli stereotipi e dai pregiudizi della cultura neo-liberista dominante; quella cultura
che – ispirando le politiche di austerità prescritte dalla Commissione europea, dalla Banca
centrale europea e dal Fondo monetario internazionale – sta precipitando il nostro
continente nella recessione e, di più, sta minando alla base lo stesso « modello sociale
europeo », cioè una delle esperienze più avanzate di convivenza civile che la storia del
mondo ha conosciuto.


I contributi sono stati scritti cercando, per quanto possibile, di mantenere uno stile
accessibile ad un numero ampio di lettori. Naturalmente il volume è rivolto anche ad
associazioni, sindacati e partiti che siano sinceramente disponibili a un ripensamento
critico della deriva liberista della sinistra italiana (ma non solo), a cominciare
dall’identificazione tout court del proprio progetto politico con l’unificazione monetaria
europea. E si rivolge a quella parte della sinistra che, pur essendosi verbalmente opposta a
tale deriva, non si è fatta promotrice, per superficialità o per opportunismo, della
costruzione di un progetto politico-economico seriamente alternativo. La sinistra italiana
ha purtroppo sempre teso a privilegiare il calcolo politico a breve termine all’analisi e alla
proposta economica, finendo sistematicamente preda del pensiero economico dominante,
ai cui cultori ha finito con l’affidarsi. Eroi della sinistra, anche di quella radicale, sono così
di volta in volta diventati i Ciampi, gli Andreatta, i Padoa-Schioppa – figure degnissime,
ma completamente estranee alla tradizione del riformismo socialista.


Nel licenziare questa raccolta di saggi economici, desideriamo dunque indicare
come passaggio necessario per la sinistra quello dell’assunzione, nel suo nucleo costitutivo
e caratterizzante, di un vero pensiero economico critico, premessa indispensabile di una
lettura consapevole dei processi in atto e delle strategie perseguibili.



Indice

Introduzione 6
S. Cesaratto e M. Pivetti

1. Le politiche economiche dell’austerità
L’austerità, gli interessi nazionali e la rimozione dello Stato 11
M. Pivetti
Molto rigore per nulla 19
G. De Vivo

2. La crisi europea come crisi di bilancia dei pagamenti e il ruolo della Germania
Il vecchio e il nuovo della crisi europea 26
S. Cesaratto
Le aporie del più Europa 44
A. Bagnai
Deutschland, Deutschland…Über Alles 55
M. d’Angelillo e L. Paggi

3. Austerità, BCE e il peggioramento dei conti pubblici
Sulla natura e sugli effetti del debito pubblico 71
R. Ciccone
La crisi dell’euro: invertire la rotta o abbandonare la nave? 89
G. Zezza
Oltre l’austerità 4 MicroMega
Le illusioni del Keynesismo antistatalista 104
A. Barba
La crisi economica e il ruolo della BCE 111
V. Maffeo

4. Austerità, salari e stato sociale
Quale spesa pubblica 122
A. Palumbo
Crescita e “riforma” del mercato del lavoro 133
A. Stirati
Politiche recessive e servizi universali: il caso della sanità 145
S. Gabriele
Spread: l’educazione dei greci 160
M. De Leo

5. Oltre l’euro dell’austerità
Un passo indietro? L’euro e la crisi del debito 172
S. Levrero
Una breve nota sul programma di F. Hollande e la sinistra francese 185
M. Lucii e F. Roà


lunedì 9 luglio 2012

Economie senza mercato: richiamo alla riflessione

Ho preso in considerazione in questo post Mutualismo? Autogestione? alcune questioni inerenti alle cosiddette "economie senza mercato" e più in generale quell'agire alternativo che alcuni movimenti anticapitalisti intenderebbero propugnare. Ho tentato di mostrare l'inconsistenza economica di tali pratiche, ma senza per questo giudicarne il valore sotto il profilo della scelta personale, che eticamente mi sento di rispettare. Questo breve articolo, sempre tratto dalla rivista n+1, mi pare un buon epilogo a quel post e vi invito a leggerlo a mo' di richiamo alla riflessione.



Vivere senza denaro


Di fronte ai sempre più frequenti tentativi di fuga dal capitalismo ci sono reazioni diverse. I giornalisti sono attirati da un atteggiamento che "fa notizia": sembra impensabile eliminare il denaro nella società attuale. I falsi alternativi, tra i quali sono compresi alcuni degli stessi giornalisti, i blogger e gestori di siti internettiani di varia umanità, la mettono sull'etica individuale: com'è coraggiosa la scelta, come dev'essere difficile abbandonare le vecchie abitudini, abbasso il consumismo, ecc. I marxisti (ormai senza virgolette) fingono di essere alternativi autentici e sentenziano: "Attualmente i socialisti non vogliono abolire il denaro. Ciò che vogliono è veder instaurato un sistema sociale dove il denaro sia superfluo, come dev'essere in una società basata sulla proprietà comune e sul controllo democratico dei mezzi di produzione". Citiamo la lezioncina da un sito inglese, ma potrebbe benissimo essere un sinistro nostrano.

La genesi dei gruppi odierni dediti al baratto è incerta. Esistono da molti anni le "banche del tempo", dove però vige il computo del valore in ore di lavoro; sono numerose anche piccole comunità nate per scambiare beni o servizi con il solo criterio del valore d'uso; si diffondono anche gruppi dediti al sottoconsumo volontario. Invece l'esigenza di vivere senza denaro è recente. La ricerca sulle sue origini porta a un solo fatto specifico: la solidarietà fra lavoratori disoccupati rimasti senza salario in seguito alla chiusura di una fabbrica in Canada, solidarietà che ha finito per coinvolgere gli abitanti di un'intera cittadina. All'origine quindi non vi è una pensata utopistica ma un pragmatico bisogno di risolvere problemi concreti. Questo pragmatismo comunitario è abbastanza diffuso in Nordamerica e noi ne seguiamo gli sviluppi come facciamo per altri fenomeni generati dal capitalismo.

Sta di fatto che alcuni gruppi di persone decidono di rinunciare al denaro, anzi, di rifiutarlo in quanto inutile, e di vivere senza lavorare per salario o parcella, in modo da rendere evidente questa non necessità. Insomma, c'è qualcuno al mondo che invece di adorare il dio del capitalismo lo trova repellente e cerca in tutti i modi di schivarlo immaginando un mondo diverso. Facendo tra l'altro una fatica notevole, perché la cosa non è semplice. Ovviamente questi gruppi non riescono né a vivere completamente senza denaro né a dimostrare di conseguenza che il denaro stesso non è necessario. Chi volesse criticare questa "scelta di vita" troverebbe appigli a bizzeffe e curiosamente c'è chi s'incarica di cercarli.

Coloro che si dedicano alla vita senza denaro sanno benissimo che ogni oggetto barattato è stato prodotto e venduto per denaro in quanto merce. Quindi sanno che possono soltanto dar vita a isole entro un mondo che continua a funzionare come al solito. Del resto i rapporti col denaro rimangono strettissimi: se per esempio ci si deve spostare in treno non si può barattare alcunché con le ferrovie, bisogna trovare chi regali il biglietto dopo averlo comperato in cambio di qualcosa. Vivere in un camper e generare elettricità con pannelli solari presuppone una fabbrica di camper e pannelli. L'isola senza denaro non può che essere collegata col mare del denaro. Di questa contraddizione i senza-denaro però se ne fregano. Quel che a loro importa è che individualmente vogliono vivere senza denaro. C'è chi assume psicofarmaci, chi si dà allo yoga e chi adotta uno stile di vita, è un fenomeno da registrare, non da giudicare.

Merci materiali - Merci immateriali


Due brevi interventi tratti dal n. 29 della rivista n+1

Merci materiali

Al marzo 2011 la produzione industriale americana era ancora il 5% al di sotto del picco raggiunto prima della recessione. Gli economisti però sono euforici lo stesso: da molti anni non succedeva che l'andamento dell'industria fosse migliore di quello degli altri settori. Per di più, dopo la sbronza finanziaria, dietro gli istituti di credito che tengono ancora banco, fanno capolino i cosiddetti (parametri) fondamentali. Da tenere anche presente che la ripresa industriale è stata più veloce di quella del numero degli occupati, dato che è aumentata la produttività. Ma che importa, il dato va considerato positivo, i disoccupati pesano sulla società, non sull'azienda. Comunque gli occupati industriali sono cresciuti dell'1,6% mentre in generale la crescita è stata dell'1% (le cifre sulla disoccupazione americana sono sempre aleatorie: prendiamo il massimo di disoccupazione ufficiale registrato al culmine della crisi, 12,5%, quindi vuol dire che, tolto un punto, saremmo all'11,5%, il che è tanto anche per i selvaggi parametri americani).

Facendo un consuntivo, il baratro è stato raggiunto verso la metà del 2009, con un crollo che nella meccanica ha raggiunto il 40%. La risalita sarà ancora lunga, perché per molti settori quella visibile negli ultimi tempi è dovuta non a un netto miglioramento della produzione ma al rinnovamento delle scorte. Anche l'aumento delle vendite di automobili è in gran parte dovuta al logoramento del parco circolante dopo quasi quattro anni di crisi. In totale il settore ha recuperato fino al 20%. Come da manuale marxista, la parte del leone la fanno i mezzi di produzione, e non solo perché l'Oriente ne richiede, il dollaro è basso e il governo offre incentivi: ogni crisi è una occasione per aumentare la produttività e con questo essa non fa che preparare la prossima. Solo che adesso il ciclo si è cronicizzato, e fra una caduta e l'altra l'economia stenta a ritornare ai livelli precedenti.

Ciò è poco visibile perché si muove molto il capitale fittizio, ma non bisogna confondere una ripresa di borsa con una dell'economia. Il mercato è sbilanciato da un pezzo: stagnano le merci di uso comune che costituiscono i grandi numeri, compresi i beni durevoli, automobili, case, arredi, elettronica domestica e sono in ripresa le macchine utensili, i grandi veicoli, il movimento terra, i sistemi computerizzati e tutta la componentistica collegata. Si tratta di capitale costante che dovrà… pagare sé stesso tramite nuova produzione e dovrà farlo in un contesto di consumi decrescenti a causa delle modificate, pesantissime condizioni sia dell'occupazione che del credito alle famiglie. Sulla base dei dati del passato, si è calcolato che ogni aumento di un punto del PIL dei paesi partner commerciali degli USA provoca un aumento delle importazioni dagli USA di tre punti. Se fosse vero non sarebbe spiegabile il declino industriale degli Stati Uniti che, a partire dagli indici massimi di produzione e occupazione raggiunti nel 1979, non si è più arrestato. Tolto il Giappone, i maggiori partner sono cresciuti molto, specie la Cina, la quale non ha affatto aumentato le proprie importazioni dagli Usa in confronto alle esportazioni. Il fatto è che la quota di mercato estera e persino interna degli Stati Uniti si sta restringendo rispetto a quella dei sempre più aggressivi concorrenti.

Merci immateriali

Marx nella prima pagina del Capitale descrive le merci come prodotti vendibili, atti a soddisfare bisogni, non importa se fisici o dovuti alla fantasia. La distinzione fra produzione fisica e servizi era allora abbastanza netta. La quota del valore globale dovuto alla prima era determinante e anzi crescente, e nessun economista si sarebbe preoccupato di "ritornare ai fondamentali", cioè al capitale derivante da produzione e vendita di merci, materiali o immateriali che fossero.

Oggi molti economisti trovano preoccupante la continua diminuzione della produzione industriale su quella totale. Si chiedono quale possa essere il futuro di paesi i cui servizi contano per il 70 o l'80% del PIL, paesi che oltre tutto hanno pletorici servizi "non vendibili" che non producono valore ma ne consumano. Prendiamo gli Stati Uniti: negli ultimi vent'anni la popolazione è cresciuta quasi dell'1% all'anno, il che vuol dire almeno 50 milioni di persone. Nello stesso periodo gli occupati sono aumentati di 27,3 milioni, di cui 26,7 nei servizi non vendibili (istruzione e sanità pubbliche, piccolo commercio, forze armate, polizia, ecc.) e solo 0,6 milioni nell'industria e nei servizi vendibili (come finanza e assicurazioni), con guadagno di questi ultimi e perdita netta del settore manifatturiero. Ma attenzione: al calo dell'occupazione degli addetti industriali corrisponde un aumento vertiginoso del valore prodotto dagli stessi. Ci sono dei paesi come Inghilterra e Olanda che da questo punto di vista stanno anche peggio e siccome l'andamento storico è comune a tutti i paesi, sarà presto raggiunta una soglia invalicabile.

Quando intravedono un limite all'accumulazione gli economisti ne restano sconvolti, come se ciò contraddicesse una legge di natura. Vanno indietro nel tempo e si rasserenano: negli ultimi trent'anni i maggiori paesi hanno visto raddoppiare la produzione industriale, la delocalizzazione delle merci di fascia bassa è fisiologico, quelle di fascia alta continueranno ad essere prodotte qui, non c'è da preoccuparsi. In fondo alla Cina abbiamo venduto solo l'hardware della IBM, la ferramenta, e le facciamo costruire anche quella che è ancora di proprietà americana, europea o giapponese perché qui non conviene più. Qui il business del futuro è nelle merci immateriali, "bisogna finirla con il feticcio della produzione" (Jagdish Bhagwati della Columbia University), ci dobbiamo lanciare nei grandi sistemi logistici, nelle reti fisse e mobili, nella grande distribuzione a livello globale, nei brevetti, nelle biotecnologie. I registratori di cassa elettronici di Walmart sono terminali collegati alle fabbriche sparse nel mondo, ogni minuta vendita va a far parte di un immane centro ordini in tempo reale e altre aziende di logistica si preoccuperanno di collegare la rete di trasporto del materiale ordinato.

D'accordo, per il Capitale merci materiali o merci immateriali fa lo stesso, purché si vendano. Solo che la produzione di merci immateriali non produce a sua volta fabbriche, impianti, mezzi di produzione in quantità conseguente. Questo vuol forse dire che ci sarà una divisione del lavoro a livello planetario e tutto filerà liscio? Un momento: abbiamo visto che il fenomeno coinvolge tutti i paesi, quindi tutti arriveranno a toccare il limite che tanto spaventava gli economisti. E una divisione del lavoro a livello intergalattico non c'è ancora.

lunedì 2 luglio 2012

Una noticina a Il diritto al lavoro non esiste di Massimo Fini


Ho letto (per disgrazia) l’articoletto di Massimo Fini Il diritto al lavoro non esiste avendolo trovato linkato su FB da una persona inserita nella cerchia delle mie amicizie. Inizialmente ho pensato che non valesse la pena fare osservazioni ad una tale asinata, ma riflettendo sulla potenza di propagazione degli attuali mezzi di comunicazione di massa ho cambiato idea. Lo so, non sono né Massimo Fini né il mio profilo FB conta migliaia di amicizie, anzi il contrario, e so che saranno poche decine (spero almeno in quelle) le persone che leggeranno questa nota, ma sento comunque la necessità di manifestare il mio personale disappunto a quelle affermazioni, anche se con un fastidioso senso di impotenza dovuto alle mie scarsissime capacità di marketing virale.

Ho letto, questa mattina stessa, lunedì 2 luglio 2012, la risposta di Pierfranco Pellizzetti Il Lavoro è diritti, non schiavitù all’articolo di Massimo Fini su Il fatto quotidiano e siccome la risposta, pur rispettandola, non mi pare convincente, la cosa ha rafforzato in me la necessità di allontanare quel senso di disagio provocato dalla suddetta asinata.
1866 - Nevrev N.V. Baratto. Episodio di vita quotidiana dei servi della gleba.
Intanto quel che mi ha procurato maggiore malessere è proprio l’esordio dell’articolo di Fini “Elsa Fornero ha perfettamente ragione” questa è la parte peggiore di tutto l’articolo. Avevo già commentato, tra l’altro, l’insulsaggine della ministra Fornero in un mio blog (http://samagamael.tumblr.com/).  Massimo Fini avrebbe potuto sostenere il proprio punto di vista in altro modo. La scelta di argomentare un ragionamento presenta numerosissime alternative. Se uno scrittore come Massimo Fini sceglie esattamente questo esordio è perché gioca abbastanza sporco, e non credo che una scelta di questo tipo sia stata frettolosa e casuale. Ma passiamo oltre.

Tutta la falsità della tesi finiana è contenuta in una “consapevole”, a mio avviso, confusione che ha la caratteristica di una fallacia. Vediamo. Fini non distingue di quali diritti in senso giuridico si stia trattando e pare voler far credere che il diritto al lavoro in questione sia ritenuto da coloro che lo sostengono un diritto naturale. Vorrei ricordare, anche se ciò provocherà antipatia perché sembra peccare di presunzione, che i diritti sanciti dall’ordinamento giuridico sono il risultato di un rapporto di forze e non un fatto naturale come la pioggia o il vento, personalmente ero convinto che il giusnaturalismo fosse oramai tramontato da tempo, ma evidentemente non è così, oppure si mente sapendo di mentire.

Certo nessuno può garantire la felicità o la salute, ma i sistemi sociali, politici ecc. ecc. possono creare le condizioni migliori per la loro realizzazione, per esempio. Sono personalmente convinto, forse ancor più di Massimo Fini, che il lavoro è una pena, anzi addirittura una piaga, e che siamo oramai ad un tale livello tecnico scientifico che potremmo lavorare tutti molto meno anche con livelli retributivi molto più alti. Certissimo! Le macchine potrebbero sollevarci dalla condanna disumana dello stress e dall’affaticamento e potremmo vivere più felici e con maggior benessere sanitario “appunto in tal modo…di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.” [K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24]

Come vede signor Massimo Fini sono ancor più convinto di lei che mio figlio di 24 anni potrebbe fare a meno di lavorare in un call center per 350€ al mese. Di più!! Potrebbe sentirsi realizzato se potesse cambiare quando gli va e trovare l’attività che, essendo non un lavoro, ma un’occupazione creativa, lo facesse sentire vivo, utile e raggiante! Il ché mi riempirebbe l’animo di gioia. Si figuri: pensa che per me non sarebbe il più bel dono della vita?
Ma c’è un ma. Eh si signor Fini, e tutti coloro che hanno apprezzato l’asinata, il problema è che mio figlio, e pure io, pure la mia collega della scrivania a fianco, e pure la persona che ho visto passare prima per strada, non si sono scelti questo stato di cose. Se potessero scegliere probabilmente non sottoscriverebbero un “contratto sociale” alla Rousseau (una delle grandi idiozie storiche) dove si è costretti ad arricchire pochi sfruttatori che decidono quali sono i diritti degli altri (quando possono farlo, ovviamente, perché non ci si deve dimenticare dei rapporti di forza). Ferma restando l'esistenza dei "servi volontari" di boetiana memoria

E dunque, permettetemi di autoproclamarmi portavoce dei molti altri che la pensano come me, mentre siamo nell’attesa di abbattere il sistema del capitale e permettere alle forze produttive (la scienza, la tecnica e la loro applicazione al processo lavorativo, e quindi all’organizzazione del lavoro) di realizzare quel fantastico mondo, di cui il signor Fini si è fatto portavoce, “da vivere “qui e ora” e non con l’ansia della “partita doppia” del mercante che disegna ipotetiche strategie sul futuro. [dove] Questa disposizione psicologica verso il lavoro era determinata dal fatto che in epoca preindustriale…non esisteva la disoccupazione. Per la semplice ragione che ognuno, artigiano o contadino che fosse, viveva sul suo e del suo. E non doveva andare a pietire un’occupazione qualsiasi da quella bestia moderna chiamata imprenditore.”, mentre viviamo quell’attesa, come dicevo, per non dover andare a pietire il nostro carnefice lasciateci pretendere che quello schifo di “lavoro” sia un diritto perché, purtroppo, “appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere;” [Marx op. cit.].

Alcune riflessioni sulla Storia

  Avvertenza. Questo articolo può essere considerato a tutti gli effetti una lunga nota a quello precedente https://umanitapolitica.blogsp...